L’OPERA DEL CARDINALE SCHUSTER PER RISPARMIARE ROVINE E SANGUE ALL’ITALIA SETTENTRIONALE

L’OPERA DEL CARDINALE SCHUSTER PER RISPARMIARE ROVINE E SANGUE ALL’ITALIA SETTENTRIONALE

25 aprile 1945, il drammatico incontro fra il Cardinale Schuster e Mussolini. L’Arcivescovo di Milano fece un ultimo tentativo di mediazione fra il duce e la Resistenza, mentre Milano insorgeva. Al Cardinale, più di ogni altra cosa, premeva salvare la città da ulteriori orrori e sofferenze, nel timore che si combattesse casa per casa. Ma Mussolini di fronte alla richiesta di resa incondizionata e saputo che delle trattative separate dei tedeschi, preferì fuggire verso Como, andando così incontro al suo destino. Sandro Pertini racconta che in quella sede si stava tentando di salvare la vita a Benito Mussolini trovando un accordo all’insaputa di comunisti e socialisti, che mai avrebbero approvato e mai approvarono per la sua resa e consegna al Comitato di Liberazione Nazionale; l’Arcivescovo di Milano si faceva garante della eventuale intesa. Ma l’incontro fallì e l’insurrezione di Milano era iniziata, nessuno e nulla avrebbe potuto fermarla. Mussolini raggiunse Como da dove poi, con codardia, tentò la fuga travestito da soldato tedesco. Fu in quel frangente che il compagno Pertini incontrò, per la prima e unica volta, il dittatore fascista.

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CARDINALE SCHUSTER, ARCIVESCOVO DI MILANO (fonte Famiglia Cristiana)

Come si apprende dalla nobilissima lettera dell’Eminentissimo Cardinale Arcivescovo Schuster, già da qualche tempo le Autorità Ecclesiastiche, avevano ripreso le trattative iniziate da alcuni mesi prima con le Autorità militari e civili e del Comitato di Liberazione Nazionale allo scopo, di accorciare, se fosse stato possibile, il conflitto e ad ogni modo per risparmiare alle nostre città le conseguenze di più gravi disastri. Le trattative furono intensificate precisamente col verificarsi dell’avanzata alleata. E le conclusioni alle quali si giunse riaffermando il proposito di risparmiare qualsiasi distruzione di stabilimenti che sarebbero restati sostanzialmente in piena efficienza lavorativa; tutti i mezzi di produzione intatti, servizi pubblici, acquedotti ecc., salvaguardando quindi il lavoro e la possibilità di ripresa per l’Italia intera e per Milano in particolare. Nessun ostaggio (ed era il gioco angoscioso di vita contro vita!) ed anzi liberazione dei prigionieri politici, evitando il rischio di cruente intempestive evasioni, che avrebbero costato la vita ad integerrimi patrioti e forse avrebbero rimesso in circolazione delinquenti comuni. Si assicurava inoltre che il trapasso dovesse avvenire nella forma più ordinata possibile nelle mani degli uomini già designati e con responsabilità e funzioni dal C.L.N.A.I. (Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia), senza soluzione di continuità, evitando gravi disordini, dispersioni di beni di consumo, che debbono invece essere disciplinatamente mobilitati per la popolazione tutta. Si era dunque ottenuto che Milano non diventasse in alcun modo il centro della resistenza disperata, col convergere in essa di tutti gli elementi militari del passato regime, risparmiando così alla città ambrosiana le distruzioni estreme e lo spargimento di sangue, e tutto questo senza intralciare, anzi favorendo il programma del C.N.L.A.I. anche in quest’opera di giustizia che si può e si dovrà realizzare nell’ordine attraverso i regolari tribunali, nel ripristino della tradizione italiana gelosa di quel diritto che risale a Roma cristiana e che, mentre esige la luce completa, rifiuta ogni arbitrio. Nel prosieguo delle trattative, mentre la situazione andava sempre più aggravandosi, chiese un colloquio con Sua Eminenza Benito Mussolini che fu ricevuto al Palazzo Arcivescovile giovedì nel pomeriggio alle 17,15. Mussolini giunse accompagnato da Zerbino, Barracu e dal dott. Bassi. Più tardi giunse anche il maresciallo Graziani, il quale procedette per i saloni arcivescovili, fino all’antisala dove si svolgevano i colloqui, tenendo in mano una grossa rivoltella, che posò sul tavolo del segretario, Don Terraneo. Il colloquio si svolse prima intimamente fra il Cardinale e Benito Mussolini e poi col seguito fino alle 18,30 e fu diretto ad ottenere l’evacuazione da Milano delle forze armate germaniche. A quell’ora sopraggiunsero il Generale Raffaele Cadorna ed il prof. Marazzi, in rappresentanza del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia e del Corpo dei Volontari delle Libertà. Naturalmente tanto del primo che del secondo colloquio non si hanno particolari precisi ma solo diffusi. Si sa che, mentre il primo fra l’Arcivescovo e Mussolini ebbe carattere intimo, il secondo venne impostato sulla resa senza condizioni. Al termine del colloquio, Mussolini dichiarò che avrebbe dato una risposta risoluto entro un’ora, e si allontanò con Graziani, Zerbino, Barracu e Bassi, tornando in Prefettura. In Arcivescovado si attese invano la risposta e quando alle 21 si telefonò per sapere qualche cosa venne risposto che Mussolini col suo seguito avevano lasciato Milano, dalla quale nella stessa serata – e qualcuno nella giornata – si erano allontanati frettolosamente i Ministri ed i Ministeri, che qui avevano preso sede da qualche tempo, le autorità ed i così detti gerarchi, alti e bassi. Il comando della città veniva così assunto dal Comitato di Liberazione Nazionale che si insediava nel palazzo della Prefettura. Veniva nominato commissario della Provincia l’ing. Riccardo Lombardi; questore, il comandante Elia, ufficiale della Regia Marina; sindaco l’avv. Antonio Greppi e vice sindaco l’arch. Zanchetta. Intanto già nella mattinata Milano aveva espresso i suoi sentimenti, mano mano che la situazione andava aggravandosi e veniva pienamente giustificato ed approvato lì’intervento sollecito e paterno dell’Arcivescovo Schuster, ancora tanto premuroso delle sorti della città, e la decisione del Comitato di Liberazione Nazionale e dei Partiti che lo componevano. In molti stabilimenti, sopraffatti i pochi elementi contrari e qualche impenitente facinoroso, fu abbandonato il lavoro e nelle prime ore del pomeriggio anche i tranvai furono fatti rientrare nelle rimesse; il servizio tranviario delle linee foresi già non funzionava da due giorni. Spontaneamente, quasi rispondendo ad intese da lungo tempo decise, tutti i negozi si chiusero e le vie cittadine andarono animandosi, come nelle grandi occasioni. Nessun incidente grave si ebbe a lamentare per tutta la serata, nonostante che piccoli sparuti gruppi di fascisti repubblicani – all’oscuro evidentemente della sorte toccata al loro partito e decisa dai suoi capi – niente avessero tralasciato per intervenire con qualcuno dei sistemi e mezzi provocatori, così largamente usati in passato. Ma quella mattina la situazione era completamente cambiata. Nelle sedi appropriate un disperato appello venne lanciato alle Brigate Nere: non un fascista in divisa, non uno qualunque degli appartenenti alle formazioni armate del partito fu visto circolare; viceversa camion, automobili e camioncini carichi di membri del Comitato di Liberazione Nazionale nei numerosi giri di ispezione e di controllo nei quartieri cittadini, anche più popolari, venivano accolti da acclamazioni e da dimostrazioni di soddisfazione e di consenso. In qualche punto fu necessario intervenire con le armi e, durante le sparatorie, si ebbero a lamentare alcuni morti ed una quindicina di feriti. La mattina precedente elementi della “Muti” avevano arrestato un giovane sacerdote, Don Angelo Riva, coadiutore a San Giorgio al Palazzo, ed a chi ne chiedeva loro conto risposero che l’avrebbero tenuto in ostaggio; nella stessa mattinata il sacerdote venne però rilasciato. 

Bibliografia essenziale: “L’Italia” – Giornale Cattolico – 29 aprile 1945; Altri periodici dell’epoca; Luca Frigerio, “25 aprile 1945” – “Il drammatico incontro fra il Cardinale Schuster e Mussolini”, “Chiesa di Milano”, 24 aprile 2015; Antonio Spinosa, Mussolini, Il fascino di un dittatore, Le Scie, Mondadori, 1989; 

Dicembre 2023 – Lucio Causo

L’EPOPEA DELLA DIVISIONE “TRIESTE” A TAKROUNA NEL 1943

L’EPOPEA DELLA DIVISIONE “TRIESTE” A TAKROUNA NEL 1943

Resti fortificazioni di Takrouna

Resti fortificazioni di Takrouna

Takrouna era solo una modesta “amba” della Tunisia, collocata casualmente alla base della penisola di Capo Bon. Sulla sua sommità si annidava tra gli ulivi un miserabile villaggio di pastori e contadini, la minuscola moschea dal tetto verde e una ventina di casolari calcinati dal sole che sentieri da capre collegano fra loro e con la piana sottostante. Uomini e bestie vivevano insieme come ai tempi biblici. Una selletta, in cui giace il cimitero musulmano separa lo scoglio da una gobba chiamata Gebel Byir. Accanto passa la strada che raccorda Pont du Fahs con Tunisi a nord ed Enfidaville a sud. Questo era Takrouna agli inizi del 1943: un posto selvatico di cui la storia non si sarebbe mai occupata se ai disperati che lo abitavano, in lotta con la vita, non si fossero sostituiti altri disperati che si battevano per una guerra, per una bandiera, per un dovere da compiere. Fu la guerra, che da qualche mese si stava combattendo in Tunisia per trasformare questo ignorato monticello nordafricano in un simbolo di valore e di sacrificio che esaltò il soldato italiano e tedesco che dette la vita per difenderlo come onorò il soldato neozelandese e britannico che morì per espugnarlo. Dopo tre giorni di furibondi combattimenti i ciglioni scoscesi, gli anfratti, le grotte di quella piccola fortezza naturale erano cosparsi di morti e di feriti delle due parti. Erano gli ultimi giorni della guerra in Africa e della presenza italiana nel continente nero. Avanzando da oriente e da occidente le potenti armate britanniche e americane premevano sulla Tunisia, ultimo rifugio delle stremate forze italo-tedesche. Dall’Italia non arrivava quasi più nulla. Solo alcune motozattere e qualche aereo da trasporto riuscivano a passare attraverso lo sbarramento aero-navale inglese che bloccava il Canale di Sicilia. Quel poco che portavano di armi, munizioni e carburante serviva soltanto a prolungare la resistenza. La partita era ormai perduta. Si era decisa cinque mesi prima sulle sabbie di El Alamein. L superiorità dei mezzi, non il valore, aveva dato ragione all’8^ Armata del Generale Montgomery che, incalzando i resti dell’armata italo-tedesca in ritirata attraverso la Marmarica, la Cirenaica e la Tripolitania era giunta al confine con la Tunisia. Da occidente, dal Marocco e dall’Algeria, erano arrivate a darle man forte la 1^ Armata britannica del Generale Anderson e il Corpo d’Armato americano del Generale Patton. La sproporzione delle forze e dei mezzi era tale da non consentire alcuna alternativa. Per questo anche Rommel se n’era andato. La leggendaria “volpe del deserto” non poteva subire la sorte comune. Sferrato agli americani il secco colpo di Passo Kasserine (15-23 febbraio 1943), il comandante dell’Afrika Korps, che non amava le sconfitte, abbandonò la Tunisia sostituito al comando della 5^ Armata Corazzata dal Generale Von Arnim. Non era la stessa cosa. Nel soldato tedesco si spense una fiamma: continuò a combattere ma senza la dura volontà e l’entusiasmo che aveva saputo infondergli il brillante condottiero. Gli italiani Gli italiani non soffrirono di codeste malinconie. Se avevano perduto Rommel avevano trovato il Generale Messe che assunse il comando della 1^ Armata schierata sul fronte sud. Sapevano anche loro che era la fine, ma di fronte all’inevitabile reagirono con altro animo, si caricarono di orgoglio e di ostinazione, come le molle che offrono maggior resistenza quanto più sono compresse. In Tunisia furono loro a combattere meglio dei loro compagni d’arma e di sventura. Per il Generale Alexander, comandante in capo delle forze anglo-americane nell’Africa del Nord, si trattò solo di mettere a punto la tenaglia destinata a schiacciare la “noce” tunisina. La sua superiorità in uomini, artiglieria, carri armati e aerei era così enorme che il compito sembrava perfino troppo facile. Invece è una “noce” dura che lo farà sudare per tre mesi e mezzo prima di frantumare il guscio. Non era ancora pronto allorché dovette respingere a Medenine (5-7 marzo 1943)un violento attacco italo-tedesco che gli scompigliò i preparativi per l’imminente offensiva. Quando il 16 marzo attaccò la linea del Mareth tenuta dagli italiani incontrò una fierissima resistenza che per una settimana gli impedì di avanzare. Solo la minaccia di aggiramento profilatasi sul fianco destro, verso El Hamma, indusse l’armata di Messe a ripiegare sulle retrostanti posizioni. Ma lo sfondamento fallì, come fallì il 5-6 aprile l’offensiva dell’Akarit-Schotts. Rintuzzate dai veementi contrattacchi, le forze dell’8^ Armata non riuscirono ad aprirsi un varco, consentendo alle truppe italo tedesche, premute anche da nord, di ritirarsi ordinatamente sulla linea di Enfidaville. Anche per gli Alleati la coda della vittoriosa campagna d’Africa si stava rivelando come la più difficile da scorticare. Verso la metà di aprile, in una pausa dei combattimenti, si cominciò a parlare di Takrouna, qul bastione roccioso che dominava la pianura, sbarrava l’accesso a Capo Bon e controllava le strade per Tunisi ed Enfidaville. Per gli inglesi poteva diventare un ottimo osservatorio d’artiglieria ma gli italiani li precedettero di un soffio installandosi sul monticello che diventò osservatorio e caposaldo avanzato dell’ultima linea di resistenza dietro la quale le superstiti forze dell’Asse si stavano preparando allo scontro definitivo. Ormai si trovavano con le spalle al muro, ridotte in un fazzoletto di terra che non consentiva nemmeno di manovrare, seviziate giorno e notte dagli attacchi aerei. Il collasso era imminente. Come per una tacita intesa gli italiani apparivano risoluti a vendere cara la pelle, a concludere onorevolmente la sfortunata avventura africana iniziata sessant’anni prima. L’Ordine di Messe ai difensori di Takrouna era semplice e chiaro: resistere ad oltranza. In quelle condizioni l’ordine sembrava insensato se non si ripromettesse l’unico obiettivo ancora militarmente perseguibile: logorare le forze dell’avversario e ritardare il più possibile il successivo, inevitabile, diretto attacco all’Italia. Coloro che dovevano eseguirlo erano i soldati di un battaglione della divisione “Trieste”. Un battaglione per modo di dire, ridotto alla forza di 500 uomini, così come erano dimezzate le divisioni, i reggimenti, le compagnie. Da tempo in Africa gli effettivi erano ridotti all’osso, interi reparti esistevano solo di nome, altri si formavano e si dissolvevano come cera che fonde al contatto con la fiamma. Per opporsi all’imminente offensiva finale britannica questi 500 uomini, ai quali la sera stessa dell’attacco furono aggiunte due dozzine di “alpenjaeger” tedeschi, disponevano di una ventina di armi automatiche fra fucili mitragliatori “Breda 30 ” e mitragliatrici “Breda 37 ”, tre mortai da 45, tre mortai da 81, tre pezzi controcarro da 47/32 che non avevano mai sfondato un carro armato, due arcaici cannoni da 65/17 tirati fuori da chissà quale magazzino coloniale e due pezzi inglesi da 88, le sole bocche da fuoco temibili, capaci di procurare grattacapo agli attaccanti. Disgraziatamente i colpi erano contati. Una compagnia ridotta di tedeschi presidiava l’adiacente Gebel Byir, sul fianco sinistro. Fatti i conti, non era un ostacolo che poteva impensierire oltre misura quel formidabile strumento di guerra che era l’8^ Armata di Montgomery quando sarebbe scattato nuovamente all’attacco. A Takrouna, però, quei 500 uomini non erano scarti di retrovia ma solidi veterani della divisione “Trieste”, con venti mesi di deserto sul groppone, le battaglie di Tobruk, Bir Hacheim, El Alamein e Mareth alle spalle, che avevano già battuto gli inglesi anche se ora le sorti si erano invertite. Come tutti gli italiani non erano né eroi né vigliacchi ma buoni soldati, abituati ai disagi e alle fatiche, in grado di arrangiarsi in ogni circostanza. In più avevano imparato a conoscere gli inglesi, a sfruttare le favorevoli condizioni del terreno, a ricavare dalle armi antiquate e scadenti di cui erano equipaggiati il fuoco più efficace. Abbarbicati allo scoglio di Takrouna si sarebbero battuti come dannati. La seconda ragione riguardava la tempra del comandante, il capitano Mario Politi, due Medaglie d’Argento meritate a Deir el Munassib e nelle battaglie del Mareth. Con l’episodio di Takrouna ne avrebbe ottenuta una terza e la promozione a Maggiore per merito di guerra. Ufficiale valoroso, il capitano Mario Politi conosceva bene il suo mestiere, aveva fiducia nei suoi uomini e godeva della loro. Quando tra il comandante e i gregari si stabiliva questa armonia ogni impresa era possibile. L’organizzazione difensiva del bastione era ancora in corso, con la cintura minata di protezione largamente incompleta, allorché la notte del 19 aprile, alle ore 22,30, su Takrouna si scatenò il finimondo. L’artiglieria inglese lo ricoprì di ferro e di fuoco facendolo ribollire come un vulcano in eruzione. Per ore decine di bocche da fuoco martellarono il caposaldo per spianare la strada alle fanterie che alle 6 del mattino si mossero all’attacco. Erano gli uomini della 2^ Divisione Neozelandese comandata dal Generale Freiberg, parte bianchi e parte maori. Numerosi come cavallette, si avvicinavano al torrione sostenuti e protetti da decine di mezzi corazzati. A colpi di “machete” si aprivano un varco tra le siepi spinose e i ciuffi di cactus offrendosi al tiro delle armi del caposaldo che entravano in azione provocando larghi vuoti tra le file degli attaccanti. Una ondata dietro l’altra, incuranti delle sensibili perdite, i neozelandesi serravano le distanze ottenendo un primo importante successo: il presidio tedesco del Gebel Byir, perduto il comandante, venne rapidamente sopraffatto. Sul fianco sinistro, che era il più debole, non solo venne a mancare l’appoggio ma si profilava una seria minaccia. Riparandosi dietro i sassi, sfruttando ogni anfratto, sfilando lungo i borri, gli attaccanti s’infiltrarono nel massiccio ed eliminando alcuni centri di resistenza riuscirono a raggiungere la sommità del bastione dalla quale intimarono la resa ai difensori. Per sloggiarli i fanti della “Tireste”, dal capitano Politi al cappellano don Giuseppe Maccariello che liberava a colpi di bombe a mano il posto di medicazione, impegnarono mischie feroci, furibondi corpo a corpo in una confusione indescrivibile. Gli episodi di valore non si contavano, morti e feriti giacevano ovunque ma gli assalitori non concedevano tregua, insistevano negli attacchi che si rinnovavano incessantemente. Alla richiesta di rinforzi il comando di reggimento rispose inviando nel pomeriggio una compagnia di granatieri ridotta a 40 uomini e due compagnie della “Folgore”, in tutto una ottantina di paracadutisti, che rastrellarono il nemico, lo snidarono dal villaggio, lo ributtarono giù dalle pendici del monte recuperando i due pezzi da 88 che erano stati perduti. Nelle prime ore del giorno 21 aprile la situazione nel caposaldo era ristabilita ma i britannici non intendevano desistere dal loro obiettivo: il possesso di Takrouna era la premessa indispensabile alla battaglia decisiva di Enfidaville. Alle incerte luci dell’alba i neozelandesi di Freiberg ritornarono all’assalto sorretti da reparti freschi della 50^ Divisione Inglese. La lotta si riaccese cruenta lungo i costoni proseguendo per tutta la giornata, spezzettata in centinaia di scontri individuali. Sul torrione c’era il caos, l’inferno, ciascuno si batteva come poteva con le poche munizioni rimaste, con le bombe a mano, le baionette, le unghie e i denti. La marea avversaria lentamente sommerse il caposaldo dove sparuti gruppi di uomini continuavano a resistere lanciandosi in disperati contrattacchi mentre il posto di medicazione, colmo di feriti italiani e neozelandesi, venne perduto e ripreso più volte. Nel racconto dei pochi superstiti si intrecciarono figure ed episodi che ormai facevano parte della leggenda della “Trieste”: quel fante sconosciuto che trovò la forza di scherzare sulla gamba fracassata dicendo: “Se la perdo risparmierò una scarpa”; il caporale Sessa che da solo affrontò quattro neozelandesi, ne uccise due, catturò gli altri e recuperò la bandiera di cui si erano impadroniti; il sergente maggiore Claudio Bressanin che, ferito mortalmente, raccogliendo sulla punta della matita il filo di sangue che gli colava dall’addome prima di spirare scrisse su un pezzo di carta “Viva l’Italia”; il comandante Politi che si buttò nei contrassalti alla testa dei superstiti, il cappellano che tra una medicazione e un’assoluzione “in articulo mortis” sparava col moschetto e scagliava bombe a mano, il capitano Gastone Giacomini che con un pugno di uomini eliminò all’arma bianca un’infiltrazione di nemici rimanendo gravemente ferito alla gola. Luminosa figura di ufficiale, religiosissimo, si riteneva invulnerabile esponendosi temerariamente al fuoco nemico. Riparato in Italia, riprenderà a combattere per liberarla dai tedeschi cadendo sul fronte del Senio il 10 aprile 1945. Sarà decorato di medaglia d’oro alla memoria, come il sergente Bressanin, come la bandiera del 66° Reggimento di Fanteria della Divisione “Trieste” che sul Mareth, all’Akarit, a Takrouna e ad Enfidaville sbalordì gli inglesi. Per tutta la notte sull’insanguinato colle di Takrouna echeggiarono tonfi di bombe a mano, raffiche di mitra, lamenti di feriti, grida di “Trieste” e “Folgore”. Solo nel tardo mattino i neozelandesi ne presero pieno possesso stroncando le ultime sparute resistenze. Seicento uomini avevano contenuto per circa sessanta ore l’impeto di una intera divisione frenando la spinta dell’8^ Armata di Montgomery che non otterrà nulla dalla prima battaglia di Enfidaville. Dovrà combattere un’altra battaglia per avere ragione dei soldati di Messe che, ormai privi di munizioni, cederanno le armi solo il 13 maggio, due giorni dopo la resa delle forze tedesche di Von Arnim. Dal torrione di Takrouna scesero una cinquantina di superstiti, sei dei quali, compreso l’indomito cappellano, ripareranno nelle nostre linee. Alcuni di essi, col Generale Mario Politi, erano presenti alla cerimonia commemorativa celebrata nella Caserma “Gamberini” di Ozzano Emilia (Bologna). Da leali avversari gli inglesi hanno reso aperto riconoscimento al valore dei difensori di Takrouna, protagonisti di un episodio che li lasciò sconcertati e ammirati. Radio Londra ammise che la collina era stata difesa metro per metro e che vi avevano combattuto “ i migliori soldati italiani” affrontati dall’8^ Armata. Nel suo rapporto il Generale Montgomery scrisse che “ i combattimenti furono particolarmente duri a Takrouna”. Anche il Generale Alexander citò il fatto nella sua relazione sulla campagna di Tunisia:. “ Fu notato che gli italiani combattevano particolarmente bene, superando i tedeschi che erano in linea con loro. I neozelandesi ebbero uno scontro altrettanto sanguinoso per il villaggio di Takrouna”. 

Stemma Divisione Trieste 001

Stemma della Divisione Trieste

“Dichiarazioni che offrirono del soldato italiano, ovunque abbia combattuto in una guerra per lui perduta in partenza, la vera dimensione. Che non è quella di eroe per vocazione ma nemmeno di codardo per nascita. Per battersi bene gli occorre un ideale o uno stimolo: l’orgoglio, la disperazione, l’onore e quell’amor di patria, guida sicura di ogni uomo, che è sempre un lievito formidabile, capace di trasformare anche un pusillanime in un prode. O ancora, spirito bizzarro, la passione per la passione per le cause perdute. Forse per questo miscuglio di sentimenti ha combattuto così gagliardamente in Tunisia e a Takrouna quando tutto stava crollando intorno a lui, conscio che non sempre la vittoria premia i migliori e che anche la sconfitta ha una sua tragica fiera dignità. ” B. Traversari.

“La fiera resistenza del caposaldo di Takrouna conclude così l’epopea della Divisione “Trieste” iniziatasi 35 mesi prima. Ma il patrimonio di gloria accumulato nelle aspre lotte su tutti i fronti non poteva disperdersi nel tempo; nel 1950 la Divisione “Trieste” veniva ricostituita per essere trasformata nel 1960 in Brigata. “ Gen. F. Patrono.

Dicembre 2023 – Lucio Causo

LE NAVI “LIBERTY” NELLA BATTAGLIA DELL’ATLANTICO

LE NAVI “LIBERTY” NELLA BATTAGLIA DELL’ATLANTICO

Navi Liberty in Atlantico 001

Il problema che si presentava all’Alto Comando tedesco nel 1940, dopo che i vittoriosi eserciti del Reich si erano attestati sulle coste francesi della Manica e dell’Atlantico, aveva la ferrea fisionomia di una equazione matematica: o si invadeva l’Inghilterra con operazione “Leone marino”, o si strangolava l’Inghilterra impedendole di ricevere quanto le occorreva per vivere e per combattere, attraverso le lunghe rotte dell’Atlantico. L’operazione “Leone marino”, cioè lo sbarco in Inghilterra, fu ritenuta inattuabile. L’aviazione e la marina tedesche non possedevano e non avrebbero mai potuto possedere il dominio assoluto della Manica, necessario non soltanto a sbarcare un esercito di invasione sulle coste meridionali della Gran Bretagna, ma a mantenervelo, a rifornirlo e a rafforzarlo adeguatamente. L’aviazione inglese non era stata sconfitta, e pur battendosi al limite delle sue risorse tecniche e umane, era sempre un nemico formidabile. Nella guerra marittima di superficie i tedeschi erano poi nettamente inferiori agli inglesi, e non solo per la grande disparità nel numero e nella potenza delle navi, ma, come si era già constatato nella battaglia del Rio de La Plata, del 13 dicembre 1939, fra la formidabile corazzata tascabile “Graf Von Spee” e tre incrociatori inglesi, inferiori per dislocamento e armamento, per perizia e per quel complesso di doti che una tradizione secolare conferiva alla marina britannica. In queste condizioni, dunque, per vincere la guerra contro il nemico insulare i tedeschi dovevano colpirne a fondo i traffici. L’Inghilterra, per sopravvivere, aveva bisogno di 50 milioni di tonnellate di materie prime, di viveri, di armi all’anno. Dovevano cioè arrivare nei suoi porti 30 navi mercantili al giorno. Come aveva insegnato Clausewitz, bisognava logorare il nemico, consumarlo: in una parola, distruggere più piroscafi di quanti riuscisse a costruirne. Allo scoppio della guerra, i tedeschi disponevano di una forte flotta di superficie destinata soprattutto alla guerra di corsa. Essa allineava, oltre al naviglio minore, le due più potenti corazzate del mondo, la “Bismark” e la “Tirpitz” da 35 mila tonnellate, con otto pezzi da 380, due incrociatori da battaglia da 26 mila tonnellate, con 9 pezzi da 280, lo “Scharnhorst” e “Gneisenau”, le tre corazzate tascabili da 10 mila tonnellate, sei pezzi da 280, “Deutschland” , “Admiral Scheer“ e “Admiral Graf Spee”, specialmente ideate per l’insidia al traffico marittimo e perciò con la straordinaria autonomia di circa 20 mila miglia. Infine, tre incrociatori pesanti ugualmente da 10 mila tonnellate, ma con autonomia molto minore, e sei incrociatori leggeri. Relativamente debole,invece, era la flotta sottomarina, con sole 27 unità oceaniche, contro le 30 dell’Italia che disponevano poi di altri 70 sottomarini adatti alla guerra nel Mediterraneo. Nel corso della guerra tuttavia, i tedeschi riuscirono a costruire 1200 U-Bootes, abbreviazione di “unterseeboot” (imbarcazione sottomarina), e ad addestrare nel modo più perfetto 40 mila sommergibilisti, tutti nazisti fanatici, condizionati psichicamente in modo tale da accettare stoicamente il sacrificio pauroso delle lunghe crociere in immersione e la morte quasi certa che li attendeva. Dei 1200 sottomarini impegnati dai tedeschi nella guerra, ne rimanevano alla fine del conflitto soltanto 153 e di 40 mila sommergibilisti, ne perirono in mare 33 mila. E non si trattava poi soltanto di morire: si trattava di uccidere, spesso a sangue freddo. Branchi di lupi in agguato, gli U-Bootes attendevano i convogli inglesi e li attaccavano in gruppi di sette od otto. Se le navi erano cariche di esplosivi o di ferro, difficilmente vi erano superstiti. Una nave carica di ferro affondava in 30 secondi. Altrimenti, il sottomarino puntava il cannone sulle scialuppe cariche di naufraghi e le distruggeva spietatamente per non fornire al nemico indicazioni sulla sua ubicazione. Non erano naturalmente questi i procedimenti dei nostri pochi sottomarini oceanici e andò anzi famoso l’episodio del “Cappellini” che al comando di Salvatore Todaro affondò il piroscafo “Kabalo” e per otto giorni ne trainò poi la scialuppa carica di naufraghi, sbarcandoli in salvo alle isole Azzorre. Dei nostri 30 sommergibili oceanici ne andarono perduti 16 e il tonnellaggio affondato, 19 mila tonnellate per ogni sommergibile, fu superiore a quello degli U-Bootes che, in media, affondarono 17 mila tonnellate ciascuno. Naturalmente, il gran numero di unità impiegate dai tedeschi condusse all’affondamento complessivo di ben 13 milioni di tonnellate di naviglio alleato, una quantità gigantesca, due o tre volte l’intera flotta commerciale di una potenza marittima di media grandezza. Eppure i sottomarini tedeschi e il loro famoso comandante, l’ammiraglio Doenitz, non riuscirono a strangolare l’Inghilterra. E lo stesso accadde alla potente flotta corsara di superficie tedesca. Nei primi mesi di guerra, il traffico marittimo britannico era quasi del tutto indifeso e i pochi U-Bootes, di cui i tedeschi disponevano, riuscirono in soli 60 giorni ad affondare due portaerei e una cinquantina di piroscafi. Churchill, allora primo Lord dell’Ammiragliato, corse immediatamente ai ripari. Ricordandosi la lezione di Nelson nella lotta contro il blocco napoleonico, organizzò i convogli, veri e propri treni di navi da trasporto, di cui ogni unità costituiva una specie di vagone, che era possibile proteggere con navi da guerra. Poiché non gli bastavano i cacciatorpediniere della Royal Navy, ne comprò 50 dagli Stati Uniti, cedendo a Washington per 99 anni alcune basi nelle Indie Occidentali. Sui convogli si faceva una vita d’inferno. Le navi avanzavano lente, 10-12 chilometri l’ora. Gli equipaggi, marittimi di mestiere, erano continuamente in attesa dello schianto del siluro o della bordata d’un corsaro tedesco. Le rotte erano state spostate il più a nord possibile, dagli Stati Uniti e dal Canada ai porti della Scozia. Tuttavia nel ’40, ib tedeschi affondarono in pochi mesi 350 mercantili, molti di più di quanti non ne potessero essere costruiti. Secondo la dottrina di Clausewitz, il nemico veniva consumato. E anche nel ’41, dopo che erano entrati in azione i cinquanta cacciatorpediniere acquistati dall’America, e nonostante l’impiego di nuovi segnalatori acustici, le perdite di naviglio si mantennero alte. Solo che anche gli U-Bootes cominciarono a pagarla cara e una metà circa dei sottomarini non tornava più dalle missioni, si inabissava colpita dalle bombe di profondità delle navi di scorta. Nel ’42, organizzate alcune grandi basi sulle coste occidentali della Francia, l’offensiva sottomarina dei tedeschi si intensificava. Più perfezionati tipi di unità subacquee operano fin sotto le coste americane, nuovi ritrovati aumentano l’autonomia degli U-Bootes, gli consentono il rifornimento d’aria in immersione. In 12 mesi i “lupi” di Doenitz riescono ad affondare la fantastica cifra di 7 milioni di tonnellaggio affondato nel corso della guerra. L’ammiraglio è ormai certo di aver vinto: mantenendo il ritmo di 600 mila tonnellate di affondamenti al mese, egli riesce a superare largamente il tonnellaggio mensile che inglesi e americani riescono a mettere in mare, impedisce il rifornimento adeguato delle armate anglosassoni e anche dei sovietici, i quali, senza il cordone ombelicale che per la rotta di Murmansk li collega alla Gran Bretagna e all’America, sono destinati inevitabilmente alla sconfitta. Ma anche per la guerra marittima, i tedeschi commisero l’errore di valutazione che è stato la ragione di fondo delle sconfitte della Germania guglielmina e della Germania hitleriana: non valutarono a sufficienza l’enorme potenza industriale degli Stati Uniti. Un industriale americano appunto, e di evidente origine tedesca per di più, il signor Henry Kayser, inventò un sistema di prefabbricazione per le navi mercantili. Si costruivano in stabilimento le varie parti delle navi e poi si saldavano insieme in cantiere. Nasceva così la portentosa “Liberty” di 5 mila tonnellate. L’industria americana in dodici mesi riuscì a costruire 14 milioni di tonnellate di naviglio mercantile. I ferrei dati de’equazione diedero torto ai tedeschi. La loro guerra sul mare, e perciò tutta la guerra, era perduta. 

13 novembre 2023 – Lucio Causo

LA BATTAGLIA NAVALE DI MIDWAY DECISE LA GUERRA NEL PACIFICO

LA BATTAGLIA NAVALE DI MIDWAY DECISE LA GUERRA NEL PACIFICO

Battaglia di Midway 1942 001

L’anno 1942 fu l’anno decisivo della seconda guerra mondiale. Cominciato come un conflitto per l’equilibrio europeo, da pochi mesi esso era divenuto mondiale con l’attacco di Hitler alla Russia e con l’aggressione giapponese a Pearl Harbour. Ormai si combatteva nel Pacifico come nell’Atlantico, in Asia e in Africa come in Europa, con un immenso schieramento di popoli, e nella prima metà di quell’anno fatale poté sembrare che la situazione degli alleati diventasse disperata.. In Europa gli eserciti di Hitler arrivarono dinanzi a Stalingrado e in Crimea: stavano per tagliare la vitale arteria del Volga e per impadronirsi dei pozzi petroliferi della regione caucasica. In Africa il maresciallo Rommel portò le forze dell’Asse fino a 65 chilometri da Alessandria: sembrava aperta ai tedeschi la via del canale di Suez e, a più vasto raggio, si profilava la loro congiunzione con le altre loro armate che puntavano giù dal Caucaso e con i giapponesi nell’Oceano Indiano. I giapponesi, infine, con una serie di spettacolari colpi di mano avevano invaso gli arcipelaghi del Pacifico e le Filippine, la Thailandia e la Malesia, la Birmania, l’Indonesia, la Nuova Guinea: erano sulle frontiere dell’India e minacciavano assai da vicino l’Australia. Ma le potenze del tripartito – Giappone, Germania, Italia – avevano ormai raggiunto la massima espansione, avevano compiuto il massimo sforzo. E subito cominciò la svolta. 

Alla fine del 1942 con la rotta di El Alamein in Africa e con la rotta sul Don in Russia, le sorti della guerra erano virtualmente decise. Gli alleati erano passati all’offensiva e non avrebbero più ceduto l’iniziativa al nemico. E il primo capovolgimento in tal senso avvenne proprio nell’ultimo teatro di guerra, cioè nel Pacifico, con la battaglia di Midway. La battaglia al largo dell’atollo di Midway fu voluta dai giapponesi. Essa rispondeva esattamente ai loro piani strategici e ai loro obbiettivi di guerra, che consistevano nel logorare sempre più le forze navali americane, già duramente colpite alle Haway (Pearl Harbour), impegnandole senza tregua in spazi via via più vasti. In questo modo, quando gli Stati Uniti si fossero anche messi in grado di soverchiare la potenza militare del Giappone, avvalendosi del loro immenso potenziale industriale, si sarebbero trovati di fronte a un nemico sistemato su posizioni tanto forti e tanto vaste da preferire una pace negoziata a una guerra lunga e difficile. Era lo stesso errore di calcolo che Hitler e Mussolini avevano commesso in Europa. 

Ai primi di giugno del 1942, dopo sei mesi di guerra soltanto, i giapponesi avevano già trasformato gli arcipelaghi del Pacifico, dalle Marianne alle Marshall, dalle Caroline alle Salomone, in una rete micidiale e strettamente collegata, all’interno della quale la flotta americana non avrebbe più potuto avventurarsi. Al di fuori di questa linea la flotta degli Stati Uniti si aggrappava ancora alle isole Aleutine sulla rotta del Pacifico settentrionale, alle isole della Melanesia sulla rotta del Pacifico meridionale, e alle Haway e Midway sulla rotta centrale. Era chiaro che gli americani non potevano permettersi di perdere nessuna di queste basi d’appoggio; ed era altrettanto evidente che il comandante in capo della flotta giapponese, Yamamoto, attaccando uno di questi punti, avrebbe costretto gli americani ad attaccare battaglia in condizioni di inferiorità per logorarne ulteriormente le forze. Difatti, quando i giapponesi dispiegarono tutta la loro terrificante potenza navale per l’assalto alla base di Midway, il comandante in capo americano Nimitz non esitò a far convergere lì tutta la sua flotta. Gli americani accettavano la sfida giapponese, mettendo in gioco ogni possibilità di resistenza futura. Accettavano la difesa a oltranza della “sentinella delle Haway” con la stessa disperata coscienza dell’ineluttabilità con cui poco dopo si sarebbero affrontate le battaglie di El Alamein e di Stalingrado. Il resto era affidato all’efficienza dei mezzi, alla capacità dei comandanti e all’eroismo degli uomini.

La battaglia di Midway durò quattro giorni. Fu combattuta da navi che si trovavano a centinaia di chilometri le une dalle altre, senza che una unità giapponese potesse vedere una sola unità americana, senza che una nave da guerra fosse in grado di sparare un solo colpo. Non fu una battaglia di cannoni, ma una battaglia di aerei: cioè, essa fu condotta secondo le regole delle quali lo stesso Yamamoto era stato il maestro. L’ammiraglio Yamamoto era stato fra i primi a rendersi conto che, poiché l’aereo ha un raggio offensivo assai più lungo di quello del cannone, alla portaerei doveva assegnarsi il principale ruolo offensivo sul mare, mentre le terribili corazzate e gli incrociatori venivano declassati al compito di navi di scorta. E tuttavia Midway si risolse in un grosso successo per gli americani. Essi avevano già fatto le spese delle nuove dottrine di Yamamoto. Ma a Midway l’ammiraglio Nimitz fu in grado di attuare un analogo disegno strategico, partendo per di più in vantaggio: usando cioè Midway come una vera e propria portaerei e per giunta inaffondabile. I giapponesi perdettero quattro portaerei contro una degli americani; furono costretti a fermare la loro avanzata: non guadagneranno altro spazio e consentiranno al nemico di guadagnare tempo. Da allora in poi la superiorità aeronavale nel Pacifico cambiò campo.

Ottobre 2023 – Lucio Causo

AGGUATO ALLA CORAZZATA “TASCABILE” TEDESCA “ADMIRAL GRAF SPEE” NEL 1939

AGGUATO ALLA CORAZZATA “TASCABILE” TEDESCA “ADMIRAL GRAF SPEE” NEL 1939

Corazzata tedesca Graf Von Spee 001

La Corazzata Tascabile Admiral Graf Spee in navigazione nel 1939

Le tre navi inglesi procedevano in linea di fila: in testa l’incrociatore leggero “Ajax” su cui levava l’insegna il comandante della piccola squadra, il commodoro Harwood, al centro il secondo incrociatore leggero ”Achilles”, in coda l’incrociatore pesante “Exeter”, con i suoi pezzi da 203 millimetri, capaci di sparare a 20 chilometri di distanza. L’unità più potente della squadra, l’incrociatore “Cumberland”, otto cannoni da 203, era lontana, mille miglia a sud, in riparazione alle isole Falkland. Era il 13 dicembre 1939, un luminoso mattino di primavera nella zona australe. Le tre navi andavano verso sud, a dritta l’ampio estuario del Rio della Plata, a sinistra l’immensità dell’Atlantico. Dalla plancia dell’”Ajax”, Harwood scrutava l’orizzonte, certo di incontrare a quell’ora e in quel giorno, il suo potente nemico, il corsaro tedesco “Admiral Graf Spee”. Da una decina di giorni, il commodoro s’applicava alla soluzione di un difficile rompicapo. Il primo settembre 1939, Hitler aveva incominciato l’aggressione alla Polonia; il 3 settembre, Francia e Inghilterra avevano dichiarato guerra alla Germania. 

Ammiraglio Graf Von Spee della Marina Germanica

Ammiraglio Graf Von Spee

Il terzo Reich non disponeva di una grossa marina militare, ma era pronto a insidiare il traffico marittimo con 56 sottomarini, e a condurre la guerra di corsa con navi camuffate e con le sue tre potenti corazzate tascabili, la “Deutschland”, poi ribattezzata “Lutzow”, la “Scheer” e la “Graf Spee”, varate tra il 1931 e il 1934. Il 30 settembre, 27 giorni dopo la dichiarazione di guerra, la “Graf Spee” fece la sua clamorosa comparsa, affondando al largo del Pernambuco, lo stato più occidentale del Brasile, il piroscafo “Clement”. Immediatamente, l’Ammiragliato britannico provvedeva all’organizzazione di nove gruppi di ricerca, composti complessivamente di 23 navi, e incominciava così la caccia al corsaro. La “Spee”, capace di navigare, con i suoi Diesel da 51 mila cavalli, alla velocità di 26 nodi, malgrado la corazzatura ragguardevole e il potente armamento, sei pezzi da 280 con una gittata di oltre 27 chilometri, otto pezzi da 150 e sei da 105, attraversava allora fulmineamente l’Atlantico da nord-ovest a sud-est, ricompariva al Capo di Buona Speranza, l’estremo sud del continente africano, affondava una nave, si eclissava di nuovo e non dava più notizie di sé per oltre un mese. Ma eccola, il 15 novembre, nel canale di Mozambico, tra l’Africa e il Madagascar. Affonda una cisterna, circumnaviga il Capo di Buona Speranza, rientra nell’Atlantico, manda a picco altre due navi, il 2 e il 7 dicembre. 

E il commodoro Harwood che comanda uno dei nove gruppi di ricerca e sorveglia le coste del Brasile, dell’Uruguay e dell’Argentina, incomincia a fare i suoi calcoli: la “Graf Spee” è in navigazione da oltre due mesi, ha affondato 50 mila tonnellate di naviglio e pur essendo stata rifornita da una nave appoggio, l’”Altmark”, su cui ha trasbordato parte degli equipaggi delle navi affondate, deve essere a corto di carburante, di viveri e forse anche di munizioni. Che può fare dunque il corsaro, se non dirigersi rapidamente e direttamente a qualche porto neutrale e amico del Sud America, anzi, certamente, dell’estuario del Rio della Plata e a Montevideo? Harwood calcola, ricalcola e giunge alla conclusione: il Capo di Buona Speranza e l’estuario del Rio della Plata. La mattina del 13, immancabilmente, la corazzata tascabile deve apparire nei pressi delle acque uruguayane. E infatti, alle 6 e 14 minuti del 13 dicembre, dalla plancia dell’”Ajax”, Harwood scorge un filo di fumo all’orizzonte, verso il largo, a oriente. Il commodoro sa che lo attende una lotta mortale. Ciò che avverrà è come un calcolo matematico: la soluzione è, o dovrebbe essere, una sola. La “Graf Spee” può navigare a 26 nodi; la squadra britannica a 28 nodi. Il volume di fuoco della “Spee” è inferiore delle tre unità inglesi, ma i sei pezzi da 280 millimetri del corsaro sparano a 7 chilometri e 200 metri esatti più lontano dei sei 203 dell’”Exeter”. Harwood sa che, avvistati gli inglesi, la “Spee” invertirà la rotta, forzando al massimo le macchine e lasciandosi inseguire. I tre incrociatori inglesi potranno farsi sotto, raggiungerla, ma per attraversare la zona critica, i sette chilometri e duecento metri in cui il corsaro può sparare senza che gli inseguitori siano in grado di rispondere, “Exeter”, “Ajax” e “Achilles” impiegheranno mezz’ora, e in quella mezz’ora saranno devastati dai due pezzi da 280 della torre poppiera della “Spee”. Unico espediente che Harwood può adottare è la disposizione delle sue tre navi su un’ampia linea di fronte, in modo che il fuoco del corsaro sia il più disperso possibile. “Ajax” e “Achilles” appoggiano, e forzando le macchine tutti e tre gli incrociatori inglesi muovono all’attacco, gli equipaggi sono consapevoli del disperato squilibrio delle forze e della disparità della lotta. A questo punto, nel breve volgere di 180 secondi, avviene l’imponderabile. 

Sulla plancia della “Spee” vi è il comandante, capitano di vascello Langsdorff, – “un abile e valoroso ufficiale”, – dirà Churchill nelle Memorie, ma un uomo stanco, logorato da settimane di tensione. In quei 180 secondi, Langsdorff compie un gravissimo errore: scruta la sagoma dei tre inglesi ed è convinto di avere a che fare con un incrociatore leggero e con due cacciatorpediniere. Può agevolmente affondarli con il suo superiore armamento. Invece di invertire prontamente la rotta, forza la velocità e muove contro il nemico. Le quattro navi convergono a quasi novanta chilometri l’ora. La squadra di Harwood supera d’un balzo la zona critica e quando la “Spee” apre il fuoco, alle 6,17, dalla distanza di 17 mila 500 metri, l’”Exeter” può rispondere prontamente. Le due navi muovono una incontro all’altra; a 11 mila metri, l’incrociatore inglese incassa un colpo nella torre B. E’ un colpo micidiale che uccide sessanta uomini e distrugge tutte le comunicazioni sul ponte. Ma l’”Ajax” e l’”Achilles”, da poco più di dodici chilometri, sparano a loro volta sul corsaro. La “Spee” lascia l’”Exeter” che ripara alla meglio i suoi danni e che pochi minuti dopo riprende il fuoco, e si rivolge contro l’”Ajax” che in breve tempo ha due torri fuori combattimento. Ma anche la corazzata tedesca è stata raggiunta dai colpi e danneggiata, anche se non gravemente, ed ha morti e feriti a bordo. Alle 6,36, Langsdorff fa ciò che avrebbe dovuto fare 22 minuti prima, inverte la rotta e incomincia a fuggire; “Ajax” e “Achilles” virano per l’inseguimento: l’”Exeter” incassa altri colpi, la sua ultima torre tace alle 7,30 e dieci minuti dopo l’incrociatore punta a sud, verso le Falkland dove sarà riparato. Affonderà, nel 1942, sotto le cannonate giapponesi, nella grande battaglia del canale della Sonda. Anche l’”Achilles” è stato colpito e Harwood decide di interrompere la lotta, tallonando da lontano il corsaro e aspettando la notte, per farsi sotto e attaccare con i siluri. La “Spee” mantiene intatta la sua forza, ha solo uno squarcio a prua, molto sopra la linea di galleggiamento e l’oceano vuoto e aperto dinanzi. Langsdorff decide invece di riparare nelle acque uruguayane. E’ il suo secondo errore, forse anche provocato da ragioni obiettive, dalla scarsezza del carburante e delle munizioni. Fa rotta su Montevideo e su quella che sarà la trappola mortale della “Graf Spee”. Il 13 dicembre, quando la corazzata tedesca entrò lentamente nel porto della capitale uruguayana (Montevideo), con le banchine incredibilmente gremite di folla e l’equipaggio tedesco nelle bianche divise estive schierato sul ponte, la partita non era tuttavia ancora conclusa. La nave avrebbe potuto rifornirsi rapidamente e riprendere il mare. L’”Achilles” e l’”Ajax”, con ridotte capacità di combattimento, erano in agguato al limite delle acque territoriali, e nella notte del 14 dicembre, furono raggiunti dal “Cumberland”, forte dei suoi otto cannoni da 203 mm. E tuttavia la “Spee” poteva ancora sperare, con la sua pesante corazzatura, con la su potenza di fuoco, con l’eccellenza tecnica dei suoi impianti (era munita anche di radar e gli inglesi non l’avevano ancora), in un combattimento vittorioso o, quantomeno, in un combattimento in cui avrebbe potuto infliggere altre perdite alla squadra di Harwood. Il tedesco Langsdorff, invece, si lasciò giocare.

 Stanco e scoraggiato, questo singolare personaggio in cui si mescolavano stoico coraggio e fanatica reverenza per il “suo Fuhrer”, puntò tutto sull’ipotesi errata che il governo uruguayano avrebbe consentito alla “Spee” di rimanere al riparo nelle acque neutrali del porto di Montevideo. Si trattò, probabilmente, di una sottovalutazione dell’influenza politica e diplomatica inglese, un tipo di giudizio cui non era estranea l’impostazione generale della dirigenza politica e militare hitleriana. Il governo dell’Uruguay intimò alla corazzata tascabile di riprendere il mare, non appena ultimati rifornimenti e riparazioni, i servizi inglesi montarono una colossale mascheratura. Fecero giungere nell’estuario del Rio della Plata ingenti quantitativi di nafta, diffusero la voce che l’incrociatore da battaglia “Renown” e la portaerei “Ark Royal”, in quel momento lontani molte miglia e fermi a Rio per rifornimenti, si erano uniti alla squadra di Harwood. Uscire in mare e affrontarli sarebbe stato effettivamente un suicidio. Il 16 dicembre, Langsdorff telegrafava al comando navale tedesco: “Situazione strategica al largo Montevideo: oltre agli incrociatori e al cacciatorpediniere, arrivati “Ark Royal” e “Renown”. Blocco notturno molto stretto. Nessuna speranza di poter fuggire in mare aperto e aprirmi un varco verso la patria. Chiedo se la nave debba essere affondata, nonostante l’insufficiente profondità del Rio della Plata, o se sia preferibile l’internamento”, Hitler rispondeva: “Tentare in ogni modo di protrarre la sosta in acque neutrali. Se possibile, apritevi la strada combattendo verso Buenos Aires. Nessun internamento in Uruguay. Se la nave deve essere affondata, distruggetela completamente”. 

Fine della Corazzata Graf Von Spee 1939 001

Nel pomeriggio del 17 dicembre, issata la bandiera di combattimento, la “Admiral Graf Spee” mollò gli ormeggi e navigò lentamente per tre miglia. Trasbordò settecento marinai sul mercantile “Tacoma” e incominciò le operazioni di autoaffondamento. Furono aperti i “Kingston”, le saracinesche predisposte nello scafo, e le testate dei siluri furono appese ai boccaporti sovrastanti i depositi munizioni. La benzina fu sparsa sui ponti e fu appiccato il fuoco. Quando i cavi di canapa che sostenevano le testate dei siluri si infiammarono e si ruppero, le testate caddero esplodendo e la nave si inclinò, con lo scafo squarciato, sul basso fondale del Rio della Plata. Dai moli di Montevideo, dalle rive del fiume, la gente la vide avvolta d’improvviso in una nube di fumo e subito dopo scossa da una immane esplosione. La mattina dell’indomani bruciava tra soffi di vapore e bruciò per tre giorni. Langsdorff la sera del 18 si recò in un albergo di Buenos Aires e vi trascorse la notte, la giornata successiva e la notte sul 20 dicembre, quando si suicidò con un colpo di rivoltella: “Dopo un lungo conflitto interiore”, lasciò scritto, “sono giunto alla grave decisione possibile, dopo che avevo condotto la nave nella trappola di Montevideo. Data l’insufficienza di munizioni, qualunque tentativo di aprirmi la strada combattendo verso il mare aperto e profondo, sarebbe stato destinato a fallire. Non è necessario ricordare che per un comandante che abbia il senso dell’onore, il destino personale non può essere disgiunto da quello della sua nave”, proseguiva Langsdorff, “ … La sola cosa che ora bisogna fare, è dimostrare con la mia morte che coloro che combattendo servono il terzo Reich sono pronti a morire per l’onore della bandiera. Io sono responsabile dell’affondamento della “Graf Spee”. Sono felice di riscattare con la mia vita l’onore della bandiera. Affronterò il mio destino con la ferma fede nella causa e nel futuro della nazione e del mio Fuhrer”. 

Di ben altre macchie doveva coprirsi la bandiera del Reich negli anni che poi vennero. Ma Langsdorff non lo poteva sapere, del resto, l’intero corpo degli ufficiali tedeschi se ne accorse assai tardi. 

Settembre 2023 – Lucio Causo Langsdorff comandante della Graf Von Spee

STERNATIA E IL PALAZZO GRANAFEI

STERNATIA E IL PALAZZO GRANAFEI

2996166906 c1a61e0260 hSternatia (LE) – Palazzo Granafei (Foto Paolo Margari)

Le origini di Sternatia, piccolo comune del basso Salento, sono molto antiche e si riferiscono all’esistenza di almeno tre menhir; di uno di questi si conservano ancora alcuni frammenti, la base e in particolare la croce in pietra che si trovava sulla sua sommità. Secondo il Tasselli, Sternatia sarebbe stata fondata dagli antichi greci discendenti da Giapige, ipotizzando che il nome deriverebbe dall’usanza che avevano le donne del luogo di piangere la morte dei loro cari percuotendosi il petto (sterno). L’Arditi, invece, riteneva più veritiera la tradizione che in origine qui sorgessero sette ville, le quali, per difendersi meglio, decisero di unirsi dando vita a un unico centro abitato. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, il Salento, e di conseguenza Sternatia, passarono sotto il dominio bizantino che durò fino alla conquista normanna nel sec. XI dopo Cristo. Sotto il dominio degli Angioini, Sternatia attraversò un brutto periodo, tanto che, nel 1270, gran parte degli abitanti fuggirono abbandonando le proprie case, perché alle angherie dei dominatori francesi, preferirono trasferirsi in altri luoghi più ospitali. A ripopolare il paese ci pensarono gruppi di coloni Greci e Albanesi che nel 1396 e per tutto il sec. XV giunsero numerosi e furono impiegati dai feudatari nei lavori dei campi o nei frantoi ipogei scavati intorno alle mura del paese. Sternatia, già fortezza bizantina, nel 1334 fu cinta da mura possenti a difesa del proprio territorio (porta Filia e resti delle mura di cinta sec. XV). Con l’invasione dei Turchi e la conquista di Otranto nel 1480, anche Sternatia fu occupata dagli ottomani. Nel 1481, cacciati gli infedeli, divenne quartiere generale delle truppe aragonesi incaricate di liberare Otranto, sotto la guida di Giulio Antonio Acquaviva, conte di Conversano, decapitato in un’imboscata nei pressi di Bagnolo. Secondo la tradizione, il corpo senza testa del conte giunse sino a Sternatia in sella al suo cavallo, fermandosi nella zona denominata Convento Vecchio. Recuperata la testa, il corpo del conte fu prima tumulato a Sternatia e poi trasportato a Conversano. Dagli Acquaviva la terra di Sternatia passò nel 1592 alla nobile famiglia Personè; nel 1598 fu venduta ai Cicala ed infine nel 1733 fu acquistata da Nicola Granafei, marchese di Serranova, che, nel 1734, la cedette al figlio Giuseppe, il quale, nel 1736, la donò al fratello Enrico. Nel 1744 a Enrico succedette come erede Giuseppe Maria ed infine a quest’ultimo, nel 1800, succedette il figlio Donato Maria il quale impegnò molte delle sue risorse economiche per il completamento del palazzo di sua proprietà e del vistoso ed esteso giardino. Nel centro storico di Sternatia, a pochi passi dalla Chiesa Madre si erge il maestoso Palazzo Granafei, una imponente residenza baronale oltreché un pregevole esempio di barocco salentino, sul cui portale d’ingresso troneggia l’Arme della nobile famiglia. La struttura è stata eretta negli anni ‘40 del Settecento su un precedente castello bizantino, il quale ha costituito nel passato un importante quartiere generale dell’entroterra della Città di Otranto. La facciata principale del castello, rivolta verso il paese, presenta una decorazione architettonica di grande rilievo. Il grandioso portale d’ingresso è sormontato dallo stemma della famiglia Granafei, proprietari storici della residenza. Verso la fine del 1700, il castello era costituito da sette stanze, alcuni magazzini, locali adibiti a Corte di Giustizia e carceri. A sinistra del palazzo sorgeva, ed è tuttora esistente, un bellissimo giardino pensile con vialetti e giardini: esso era noto nell’Ottocento come Giardino dei Fiori ed era costituito da vialetti con pergolati ed alberi sempre verdi, fontane, vasche, fioriere e panchine decorate. I piani superiori sono affrescati con pregevoli scene mitologiche e divinità celesti. Oggi la residenza si presenta suddivisa in due parti, una delle quali, meno appariscente, è degradata; la parte invece più signorile è ben conservata e può essere anche visitata. Sotto il basolato di Piazza Castello sono stati rinvenuti 24 antichi granai sotterranei in un’area di circa 50 metri. Dovevano essere di più, ma gli interventi per la costruzione dell’acquedotto e fognatura ne hanno danneggiato un gran numero. Nel palazzo baronale vi è un maestoso frantoio ipogeo di 200 mq sotterraneo scavato interamente a mano nella pietra locale. Il frantoio di porta Fila, di proprietà dei feudatari, fu restaurato ed ubicato nel sottosuolo di quello che era stato un tempo il giardino del palazzo marchesale dei Ganafei. Questo frantoio ha funzionato fino al XIX secolo ed era il più importante del paese fino al 1700 quando fu costruito un altro frantoio semi-ipogeo nei pressi del convento di proprietà dei frati domenicani. Il sottosuolo di Sternatia è interamente percorso da cunicoli e gallerie un tempo destinati alla lavorazione dell’olio d’ulivo. In una delle stanze del palazzo Granafei vi morì il venerabile arcivescovo di Otranto Vincenzo Maria Morelli nato a Lecce nel 1751. L’arcivescovo, ammalato di idropisia, accettò l’ospitalità del marchese di Sternatia, ma il 22 agosto 1812, ammalatosi gravemente si spense all’età di 71 anni. Dal 1808 al 1832, a Sternatia fu aggregato il Comune di Martignano, per la scarsità di popolazione di questo piccolo centro. Nel 1864 il paese usufruì della Ferrovia Lecce-Maglie-Otranto. Nel 1910, in Piazza Umberto I, fu scavato da Eugenio Perrone un pozzo pubblico (frea) della profondità di 75 metri, dotato di pompa e motore. Il Comune di Sternatia è considerato il cuore della cosiddetta Grecìa Salentina non solo per la sua alta percentuale di abitanti che parlano greco-salentino, ma anche per il movimento culturale dovuto alle tante associazioni culturali, gruppi musicali e studiosi di storia locale che rendono dinamica la vita del paese. Sternatia, o Chora (come è chiamato dai più anziani), è il paese ellenofono più visitato dai turisti Greci e più frequentato dagli studiosi di lingue minoritarie e di tradizioni popolari, perché è l’unico paese ad aver conservato l’uso della lingua greco-salentina tra le giovani generazioni. Nel medioevo gli ordini religiosi tradizionali (come i Benedettini) erano molto diffusi nella Grecìa Salentina. All’epoca suore Benedettine erano presenti a Specchia, dove Suor Nicoletta Granafei era Badessa di quel convento. Poi, col passare del tempo, registrarono una profonda decadenza. I conventi si svuotarono ed entrarono in scena altri ordini religiosi come Gesuiti, Teatini, Scolopi, Camilliani, Fatebenefratelli (nel campo dell’assistenza ai malati). Tra il 500 e il 600 gli ordini religiosi erano molto diffusi nel territorio salentino. 

Bibliografia essenziale: AA. VV., Calendario della Grecia Salentina, 1993; AA. VV., Guida di Sternatia, Galatina, 1993; A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce, 1903 (rist. 1978); C. De Giorgi, La Provincia di Lecce. Bozzetti di Viaggio, Lecce, 1882; G. Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce, 1879-1885; G. G. Chirizzi, Martignano dei Greci. Dagli Angioini ai Borboni, Galatina, 1988; M. Cazzato, Guida ai castelli pugliesi. La Provincia di Lecce, Galatina, 1997; P. Palma, Il feudalesimo nella Grecia Salentina, Martano, 2006; L. Tasselli, Antichità di Leuca, Lecce,1693. 

Novembre 2023 – Lucio Causo

LA DISFIDA DI BARLETTA – GLI UOMINI E LE AZIONI

LA DISFIDA DI BARLETTA – GLI UOMINI E LE AZIONI

C31

La disfida di Barletta, città pugliese sul mare Adriatico, fu un episodio della guerra combattuta tra Francesi e Spagnoli sin dal 1499 nella penisola italiana per la spartizione dei territori del Regno di Napoli. L’11 novembre 1500, Luigi XII di Francia e Ferdinando II d’Aragona firmarono il Trattato di Granada, col quale si stabiliva la spartizione dell’Italia del sud, con la Calabria e la Puglia in mano spagnola e l’Abruzzo e la Campania in quella francese. E fu proprio da questa spartizione che partirono le premesse per l’evento di Barletta. L’accordo divenne presto disaccordo tra le due potenze rivali e il principale teatro della guerra fu la Puglia. Nell’estate del 1502 si aprirono le ostilità fra i due eserciti, comandati rispettivamente da Louis d’Armagnac e da Consalvo da Cordova. Gli spagnoli, in inferiorità numerica rispetto ai francesi, acquisirono il supporto di Prospero e Fabrizio Colonna che precedentemente erano al servizio di Federico I d’Aragona. La tensione si suggellò in alcune battaglie che videro protagonista il condottiero italiano Ettore Fieramosca. Nel 1503, gli Spagnoli erano asserragliati a Barletta, da dove potevano amministrare i sempre più ridotti possedimenti del Regno di Napoli e comandare le proprie forze armate, supportate dagli italiani. Barletta era una roccaforte ricca e potente e nel suo porto confluivano navi provenienti da Venezia, da Trieste e da Ragusa. L’esercito francese più che assalire la città, intendeva affrontare il nemico in campo aperto, potendo così sfruttare la propria superiorità numerica. Gli Spagnoli, invece, evitavano il confronto diretto con l’esercito francese e così la guerra si trascinava con sortite di piccoli manipoli di cavalleria leggera, scorrerie, colpi di mano, stratagemmi, sfide e duelli in cui si affrontavano cavalieri delle opposte fazioni. I francesi, nel tentativo di rinforzare la loro presenza nel territorio, si erano spinti fino a Canosa di Puglia, dove furono impegnati in combattimento da reparti dell’esercito spagnolo. Alla fine dello scontro, le truppe di Diego de Mendoza catturarono e tradussero a Barletta vari soldati francesi, fra cui il nobile Charles de Torghes, detto Guy de la Motte, capitano dell’esercito francese, trattato cavallerescamente. Il 15 gennaio 1503, i prigionieri furono invitati ad un banchetto organizzato da Consalvo da Cordova in una cantina di Barletta (oggi chiamata Cantina della Sfida). Durante l’incontro nella cantina, i cavalieri spagnoli elogiarono i cavalieri italiani, che combattevano al loro fianco, arrivando a paragonarli valorosi al pari dei cavalieri francesi. I quali non tollerarono l’atteggiamento degli spagnoli e, con fare cavalleresco, il de la Motte lanciò il guanto della sfida al cavaliere italiano Ettore Fieramosca da Capua e agli italiani tutti, affermando che erano dei codardi e che ben poco valevano in battaglia. Queste parole ferirono l’orgoglio dei cavalieri italiani che accettarono la sfida e lo invitarono a provare con le armi le sue affermazioni. Per evitare un conflitto di ampie dimensioni venne stabilito che tredici cavalieri francesi e tredici cavalieri italiani (sotto l’egida spagnola) si sarebbero scontrati il 13 febbraio 1503, in una disfida in campo neutro, nella contrada Matina di Sant’Elia, un territorio che si trovava fra Andria e Corato, in agro di Trani, all’epoca sottoposto alla Repubblica di Venezia. Giudice di campo per i francesi fu nominato L. Bayard, per gli italiani Francesco Capece Zurlo. Il giorno della sfida, i cavalieri francesi si mossero da Ruvo, e prima di avviarsi al campo parteciparono alla messa nella chiesa di S. Rocco. I cavalieri italiani, affiancati da quelli spagnoli, parteciparono invece alla messa nella cattedrale di Andria, e qui prestarono un giuramento sull’onore italiano. Quindi si avviarono al campo di battaglia. I cavalli erano coperti da protezioni di cuoio ed adornati con delle mantelle riportanti ognuna lo stemma del cavaliere di appartenenza. I cavalieri erano imbracati nelle corazze, e portavano ognuno un nastro azzurro, dono augurale di Isabella d’Aragona. All’epoca era consuetudine che fossero presenti come spettatori delle sfide solamente i nobili e i regnanti, ma quell’evento così importante, spinse una gran folla di cittadini di Barletta e dei paesi vicini ad assistere alla famosa Disfida. Lo scontro avvenne nell’area recintata dai giudici delle due parti. Gli italiani furono i primi a giungere sul posto, seguiti a breve dai francesi, che ebbero il diritto di entrare per primi nel campo. Le due formazioni di cavalieri si disposero su due file ordinate, contrapposte l’una all’altra, per poi caricarsi vicendevolmente lancia in resta. Il primo scontro non causò gravi danni alle parti, ma mentre gli italiani mantennero salda la loro posizione, i francesi sembrarono alquanto disorganizzati. Due italiani finirono disarcionati, ma una volta rialzatisi cominciarono ad uccidere i cavalli dei francesi, costringendoli a combattere a piedi. Lo scontro continuò con spade e scudi, finché tutti i francesi vennero catturati o feriti uno dopo l’altro dagli italiani. Il confronto finì con una netta vittoria degli italiani. Il colpo finale ai francesi fu dato dal valoroso Ettore Fieramosca quando, durante lo scontro, prima ancora che qualcuno dei due potesse imporsi, il de la Motte, improvvisamente, cadde da cavallo. In pieno spirito cavalleresco, il Fieramosca, scese dal suo cavallo per poter lottare ancora ad armi pari contro il capitano francese. Dopo un rapido corpo a corpo, con le asce e con le spade, il de la Motte, sfinito e già psicologicamente battuto, si gettò ai piedi del valoroso italiano, arrendendosi. I francesi vennero così sconfitti e uno di essi, il savoiardo Grajano D’Aste, rimase ucciso sul campo per mano dell’italiano Francesco Salomone, gli altri furono condotti in custodia a Barletta, dove in una piazza che si raggiungeva percorrendo una scalinata fu eretta nel 1583 da Ferrante Caracciolo, duca d’Airola, una edicola con i nomi e lo stemma dei tredici combattenti italiani. A Barletta, nella “Cantina della Sfida”, ancora oggi si può ammirare il gesso di Achille Stocchi che riproduce Fieramosca mentre abbatte il la Motte. Sicuri della vittoria, i francesi non avevano portato con loro i soldi del riscatto e fu Consalvo in persona a pagare di tasca propria la somma dovuta per poterli rimettere in libertà. La vittoria degli italiani fu salutata con lunghi festeggiamenti dalla popolazione di Barletta che denigrò e derise i perdenti, circondati dai fuochi della città in festa. Alcuni preti portarono in processione una icona della Madonna dell’Assunta, da allora ribattezzata Madonna della Sfida e ancora oggi conservata nella Cattedrale di Barletta. I tredici cavalieri italiani, guidati da Ettore Fieramosca e dallo spagnolo Consalvo da Cordova, si diressero poi alla volta della Chiesa di Maria Maddalena, là dove li attendevano le più alte cariche cittadine per conferire le dovute onorificenze cavalleresche, oltre che alcuni possedimenti, in cambio dell’onore portato alla città. Usciti dalla chiesa si diressero verso il mare di folla festante, che li accompagna alla Cattedrale di Barletta per la messa solenne di ringraziamento.

Epitaffio Disfida di Barletta

Sul muro esterno, poco dopo, venne scolpita un’epigrafe in memoria della storica vittoria. La Disfida era conclusa. Molte leggende e divergenze vi sono fra i nomi dei condottieri italiani condotti anch’essi a Barletta per ricevere gli onori di vincitori; immortalati con la lapide affissa nella Piazza della Sfida. Di seguito riportiamo i 13 cavalieri italiani che presero parte alla disfida di Barletta: 1) Ettore Fieramosca da Capua, primogenito di Raynaldo, nobile capuano, ed allevato alla corte di Ferrante I d’Aragona. Condottiero dei 13 cavalieri italiani che combatterono contro altrettanti francesi nella storica disfida di Barletta. Il 28 aprile 1503 partecipò alla battaglia di Cerignola, militando nella cavalleria pesante agli ordini di Prospero Colonna. A Capua, al n. 18 di Via Ettore Fieramosca, vi è il palazzo della famiglia del valoroso condottiero. Fu molto ricco e non si suicidò precipitandosi dal monte Gargano. Morì di morte naturale in Spagna, a Valladolid nel 1512. 2) Giovanni Brancaleone de Carlonibus, fu un condottiero italiano, uno dei 13 italiani che combatterono contro altrettanti francesi nella storica disfida di Barletta. Si ritirò a Genazzano, suo paese natio, dove morì nel 1525. 3) e 4) Gugliemo Albimonte o Albamonte da Palermo e Francesco Salomone da Sutera, uomini d’arme, rimasero descritti con qualche equivoco sui casati omonimi, ma è certo che Salomone, prima della battaglia di Barletta, discendendo dai Conti di Palermo, si stabilì a Ferrara dove rapì Eleonora della Mattina, riparò a Napoli per avere ucciso un personaggio di casa Borghese ed ottenne per consiglio di Ludovico Ariosto il comando di una compagnia di ventura di Alfonso d’Este. Fu poi imprigionato per una satira composta contro Clemente VII. Guglielmo Albimonte oltre che a Barletta si distinse nella battaglia di Ravenna al servizio del marchese della Padula. 5) e 6) Ettore Giovenale da Roma e Marco Corollaro o Corollario da Napoli, su questi uomini d’arme si sono avute notizie frammentarie relative alle loro nascite e alle loro famiglie. Il Corollaro fu uno dei più valorosi e coraggiosi combattenti della disfida di Barletta. 7) Ludovico Abenavoli o Abenavolo, nobile di Aversa, sarebbe nato a Capua o a Teano secondo alcuni cronisti, ma Guicciardini lo individua come Lodovico Aminale da Terni. 8) Giovanni Capoccio da Roma, uomo d’arme, di cui si è occupato Fra Niccolò Gasparino di Spinazzola che, secondo il religioso, sarebbe stato il cavaliere Giovanni Gasparino, detto il Capoccio, da Tagliacozzo. 9) Riccio da Parma, uomo d’arme, nel 1521 avrebbe difeso strenuamente la sua città, Parma, insieme a Salomone. 10) Romanello da Forlì è registrato su alcuni documenti archiviati a Matera per i compensi riservati agli uomini d’arme del mese di maggio 1487. 11) Miale da Troia, uomo d’arme, è chiamato Meale dal Summonte, Guicciardini afferma che si tratta di Miale da Troia, città che nel 1878 ha scoperto una lapide ad Ettore Pazzis, soprannominato Maiale perché sul suo scudo aveva inciso il disegno di una troia. Sicchè il de’ Pazzis rimase definitivamente come il Meale della disfida. 12) Mariano Abignente da Sarno, uomo d’arme, apparteneva ad una famiglia nobile. Filippo Abignente, autore di un saggio che scioglie molti dubbi sulla sua casata, pare sia stato suo congiunto. 13) Fanfulla da Lodi, uomo d’arme, insieme con Ettore Fieramosca assumono simboli leggendari per le opere di Massimo D’Azeglio. Fanfulla, il cui vero nome è Bartolomeo da Lodi, lombardo, è menzionato dal Giovo come Tito da Lodi; il Summonte e Guicciardini asseriscono che era di Parma, che aveva militato nella compagnia del Conte di Potenza e che era morto in Lombardia combattendo contro Francesco I di Francia.

Maggio 2023 – Lucio Causo

Monumento disfida di Barletta

PAPA CELESTINO V

PAPA CELESTINO V

Celestino v castel nuovo napoli

Papa Celestino V, al secolo Pietro Angelerio (o secondo alcuni Angeleri), detto Pietro da Morrone, nacque a Sant’Angelo Limosano nel 1209, deceduto a Fumone, il 19 maggio 1296, è stato il 192° Papa della Chiesa cattolica dal 29 agosto al 13 dicembre 1294. Da giovane fu monaco, eremita e sacerdote. Eletto Papa il 5 luglio 1294, grazie alla sua fama di santità, non meno che all’influenza di Carlo II d’Angiò, re di Napoli, abdicò poco più di cinque mesi dopo, il 13 dicembre (161 giorni). Fu il primo Papa che volle esercitare il proprio ministero al di fuori dei confini dello Stato Pontificio e il sesto, dopo Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX e Gregorio VI a rinunciare al ministero papale; dopo di lui rinunceranno Gregorio XII (nel 1415) e Benedetto XVI (nel 2013). E’ venerato come Santo, con il nome di Pietro Celestino da Morrone, dalla Chiesa cattolica, che ne celebra la festa liturgica il 19 maggio. Pietro, penultimo dei dodici figli di Angelo Angelerio e Maria Leone, modesti contadini, era povero e di umili origini. La madre desiderava ardentemente che il figlio abbracciasse la vita religiosa e gli pagò il maestro per avviarlo allo studio delle lettere e della teologia. Ancora giovane, per un breve periodo soggiornò presso il monastero benedettino di Santa Maria in Faifoli, chiesa abbaziale tra le più importanti della Diocesi di Benevento. Mostrò una straordinaria predisposizione all’ascetismo e alla solitudine; il suo desiderio di assoluto, di silenzio e di austerità, nel nome del Vangelo, lo portarono a una vita eremitica, ritirandosi nel 1239 in una caverna isolata sul Monte Morrone, sopra Sulmona, da cui prese il nome di Pietro del Morrone. Nel 1240 si trasferì a Roma, presso il Laterano, dove studiò fino a prendere gli ordini sacerdotali. Lasciata la città eterna, nel 1241 ritornò sul monte Morrone per nascondersi nella piccola grotta di Santa Maria di Segezzano. Cinque anni dopo abbandonò anche questa grotta per rifugiarsi in un luogo ancora più inaccessibile sui monti della Maiella, in Abruzzo, dove visse nella maniera più semplice che gli fosse possibile. Si allontanò per poco tempo dal suo eremitaggio del monte Morrone per costituire nel 1244 una Congregazione ecclesiastica che fu poi riconosciuta da Papa Gregorio X come ramo dei benedettini, denominata “dei frati di Pietro da Morrone” , che ebbe la sua sede nell’Eremo di Sant’Onofrio al Morrone, il rifugio preferito da Pietro, e che soltanto in seguito prese il nome di “Celestini”. Nell’inverno del 1273 si recò col freddo e a piedi in Francia, a Lione, dove si stava svolgendo il Concilio di Lione convocato da Gregorio X : Pietro da Morrone voleva impedire che l’ordine monastico da lui stesso fondato venisse soppresso e che finì in seguito incorporato nell’ordine benedettino. La missione ebbe successo perché grande era la fama di santità che accompagnava il monaco eremita, tanto che il Papa gli chiese di celebrare una messa davanti a tutti i Padri Conciliari dicendogli che “nessuno ne era più degno”. Pietro, tornato nella sua terra, si diede alla vocazione ascetica distaccandosi sempre di più da tutti i contatti con il mondo esterno, fino a quando non fu convinto che stesse sul punto di lasciare la vita terrena per ritornare a Dio. Ma un fatto del tutto inaspettato stava per accadere. Il 4 aprile del 1292 morì il Papa Niccolò IV e nello stesso mese si riunì il Conclave composto da soli dodici cardinali che poi diventarono undici per la morte del cardinale francese Jean Cholet a causa dell’epidemia di peste scoppiata a Roma. Passarono più di due anni senza che il conclave raggiungesse un accordo per la elezione del nuovo papa. La contrapposizione tra le due potenti e nobili famiglie romane dei Colonna e degli Orsini aveva paralizzato per lungo tempo l’attività del conclave, fino a che nel 1294 i cardinali, disperati per la lunga “vacanza”, cercarono di uscire dal punto morto eleggendo un Papa temporaneo. La loro scelta cadde sull’ottantenne Pietro l’eremita, avvenuta a Perugia il 5 luglio 1294, un’elezione dovuta, dopo 27 mesi dall’inizio del conclave, alla sua fama di santità, non meno che all’influenza di Carlo II d’Angiò. Pietro fu sconvolto dalla scelta dei cardinali, ma si sottomise a essa, adottando il nome di Celestino V e fu consacrato Papa il 29 agosto 1294 nella basilica di Santa Maria di Collemaggio nella città dell’Aquila. Poiché solo tre cardinali erano presenti alla cerimonia del 29 agosto, la cerimonia fu ripetuta pochi giorni dopo quando ne arrivarono altri, rendendo così Celestino l’unico papa ad essere incoronato due volte. Uno dei primi atti ufficiali di Celestino V fu l’emissione della cosiddetta Bolla del Perdono che elargiva l’indulgenza plenaria a tutti coloro che confessati e pentiti dei propri peccati si recavano nella basilica suddetta dai vespri del 28 agosto al tramonto del 29 dello stesso mese. Fu così istituita la Perdonanza, celebrazione religiosa che anticipò di sei anni il Giubileo del 1300. Il nuovo pontefice, dietro consiglio di Carlo d’Angiò, a cui si affidò pienamente, fissò la sede della Curia pontificia nel Castel Nuovo di Napoli, dove fu allestita una piccola stanza, arredata in modo semplice e dove egli si ritirava per pregare e meditare. Di fatto, il Papa era sì protetto da Carlo II, ma anche suo ostaggio, in quanto molte delle decisioni prese dal pontefice erano direttamente influenzate dal re angioino. Il 18 settembre 1294, in un solo concistoro, creò 13 nuovi cardinali, la maggior parte dei quali francesi, provocando critiche e malcontento nella Curia romana. Egli non era adatto all’ufficio papale sotto nessun aspetto eccetto quello della santità. Nel corso delle sue meditazioni Celestino V dovette pervenire, poco a poco, alla decisione di abbandonare il suo incarico. In questo fu sostenuto anche dal parere del cardinale Benedetto Caetani (il futuro papa Bonifacio VIII), esperto di diritto canonico, il quale riteneva pienamente legittima una rinuncia al pontificato. In effetti Pietro dimostrò una notevole ingenuità nella gestione amministrativa della Chiesa, che, unitamente ad una considerevole ignoranza nelle questioni politiche e religiose, fece precipitare l’amministrazione in uno stato di gran confusione, giungendo persino ad assegnare il medesimo beneficio a più di un richiedente. A causa della sua semplicità e della sua ignoranza, divenne l’innocente strumento delle politiche di re Carlo II di Napoli e, consapevole del suo fallimento, infelice nel nuovo ambiente e ormai molto anziano, il 13 dicembre 1294 abdicò dalla carica davanti a un Concistoro di cardinali a Napoli, dove dette lettura della seguente bolla: Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della Plebe (di questa città), al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all’onere e all’onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un pastore la Chiesa Universale”. Era stato papa 161 giorni. Prima di abdicare, Celestino V reintrodusse la “Ubi Periculum”, la Costituzione apostolica di Papa Gregorio X, che ha regolato tutte le successive elezioni papali secondo le norme del conclave. Undici giorni dopo le sue dimissioni, il Conclave, riunito a Napoli in Castel Nuovo, elesse il nuovo papa nella persona del cardinale Benedetto Caetani, laziale austero e rigido di Anagni, che aveva 64 anni circa ed assunse il nome di Bonifacio VIII. Caetani, che aveva aiutato Celestino V a dimettersi, formalizzando il suo “gran rifiuto”, temendo uno scisma da parte dei cardinali filo-francesi, a lui contrari, mediante la rimessa in trono dell’eremita, diede ordine affinché l’anziano monaco fosse messo sotto controllo, per evitare un rapimento da parte dei suoi nemici. Egli temeva che i suoi avversari potessero servirsi di Celestino per i loro scopi. Il vecchio eremita venuto a conoscenza delle decisioni del nuovo papa, tentò di fuggire sulle montagne del Morrone e poi a Vieste sul Gargano per ottenere un imbarco oltre mare verso la Grecia. Ma, il 16 maggio 1295 fu scovato dai gendarmi e rinchiuso, per ordine di Bonifacio VIII, in un angusto alloggio nel castello di Fumone, presso Anagni. “Non volevo nulla nel mondo tranne una cella”- disse Celestino – “e una cella mi hanno dato”. Dieci mesi più tardi, il 19 maggio 1296, morì a 87 anni e le sue spoglie furono portate inizialmente nella chiesa di Sant’Antonio a Ferentino, che dipendeva dalla casa madre di Santo Spirito del Morrone; nel 1327 furono occultate dai monaci celestini e poi trasportate nella città dell’Aquila, nell’Abbazia di Collemaggio, da lui edificata, dove si trova ancora. Celestino V rimane la figura più commovente della storia del papato. Alcuni storici narrano che egli, mentre veniva portato via dai gendarmi, abbia sussurrato una frase, rivolta a Bonifacio VIII, che fu quasi un presagio, che diceva: “Otterrai il papato come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane”. La versione ufficiale sostiene che l’anziano monaco sia morto dopo aver celebrato, stanchissimo, l’ultima messa. Dopo la sua morte si sparsero subito voci e accuse contro il nuovo papa che ne avrebbe ordinato l’assassinio, ma di certo Bonifacio VIII non era uno sprovveduto e fece cadere nel vuoto tutte queste voci prive di fondamento. Di fatto, però, egli ne aveva ordinato la segregazione, che, in qualche modo, lo portò alla morte. Il cranio di Celestino presentava un “foro” che due perizie sulla salma, datate 1313 e 1888, interpretarono come corrispondente a quello producibile da un chiodo di dieci centimetri, ma, secondo alcuni, poteva essere piuttosto la conseguenza di un ascesso di sangue; l’ultima perizia del 2013 sosteneva, invece, che il foro fu inferto al cranio molti anni dopo la sua morte. Il 5 maggio 1313, papa Clemente V volle canonizzare Celestino V, per la sua fama di santità espressa dal popolo. Al riguardo sollecitazioni risultarono anche da parte del re di Francia Filippo il Bello. La rinuncia del ministero papale di Celestino V e i consigli ingannevoli di Benedetto Caetani (il futuro Bonifacio VIII), avrebbero determinato alcune allusioni di Dante Alighieri nell’Inferno (XXVII, 1041-05) ”però son due le chiavi Che’l mio antecessor non ebbe care”. Qualche dubbio è stato invece avanzato sull’identificazione con Celestino V e “l’ombra di colui Che fece per viltade in gran rifiuto” (Inferno, III, 59-60). Francesco Petrarca plaude al gesto di Pietro del Morrone nel “De vita solitaria” ritenendo che si dovesse considerare “il suo operato come quello di uno spirito altissimo e libero, che non conosceva imposizioni, di uno spirito veramente divino”. Il 28 aprile 2009, pochi giorni dopo il terremoto dell’Aquila, papa Benedetto XVI posò sulla tomba di Celestino V il pallio che lui stesso aveva indossato il giorno dell’inizio del suo pontificato. Il giorno 11 febbraio 2013, Joseph Ratzinger fu il settimo Papa della storia a rinunciare al ministro di Pietro. 

Giugno 2023 – Lucio Causo

NAPOLEONE E ALESSANDRO MANZONI

NAPOLEONE E ALESSANDRO MANZONI

Napoleone verso l isola di Sant Elena 001

Il pastore Orelli della Comunità Riformata di Bergamo, celebre latinista, ebbe ad osservare che Alessandro Manzoni manifestò aspri dissensi per il servilismo dimostrato dal Monti verso Napoleone. Lo stesso Manzoni rivelò grande diffidenza verso l’imperatore per le decisioni assunte a Campoformio in merito alla cessione del Veneto all’Austria, ma, soprattutto, per le promesse di libertà subito smentite.

Il poemetto Del trionfo della Libertà (1801), come le altre opere giovanili del Manzoni esultano per la vittoria riportata dai francesi sugli austriaci a Marengo, ma rilevano evidenti segni di delusione per quanto poi era avvenuto nella politica italiana. 

Napoleone Bonaparte scese in Italia nel 1800 e nell’anno successivo convocò il conte Francesco Melzi d’Eril (Milano 1753-Bellagio 1816) per conoscere la situazione politica italiana. 

Questi consigliò inutilmente Napoleone a fondare nell’Alta Italia uno stato monarchico indipendente, ma dovette accontentarsi di divenire nel 1802 vicepresidente della Repubblica Italiana che sostituì la Repubblica Cisalpina istituita il 29 giugno del 1797.

Il Melzi riordinò le finanze e l’amministrazione del territorio affidatogli fino al 1805, anno in cui Napoleone assunse il titolo di Re d’Italia, mentre il Manzoni varcava le Alpi per raggiungere Parigi. 

Nella capitale francese s’incontrò con altri ideologi, i quali, pur avendo aderito in un primo tempo alle azioni napoleoniche, constatarono tristemente che si era trattato di semplici promesse, subito cancellate, senza nemmeno tentare l’attuazione dei programmi proposti.

Alessandro Manzoni rimase a Parigi, presso la madre, dal 1805 al 1810, frequentò il salotto di Sofia Condorcet e gli altri ideologi repubblicani, fra i quali spiccavano i nomi di Pietro Cabanis e di Antonio Destutt de Tracy, si unì in stretta amicizia con Claudio Fauriel, autore del libro Des derniers jours du Consulat e traduttore delle sue tragedie in francese.

Quando Manzoni ritornò a Milano rinnovò le relazioni con Sigismondo Trechi e Federico Confalonieri con i quali aderì al Partito Italico per preparare la rivoluzione contro l’occupazione francese.

Il 17 luglio del 1821, nella sua villa di Brusuglio, nei pressi di Milano, ebbe la notizia della morte di Napoleone e in tre giorni compose Il cinque maggio.

Quest’ode è stata definita da Francesco De Sanctis “la storia del genio rifatta dal genio”, in essa “l’epopea napoleonica, nel fragore delle battaglie, nella gloria delle vittorie, nel silenzio tenebroso della disfatta viene osservata con l’animo del cristiano che vede nell’Onnipotente l’ardita speranza della consolazione infinita”. 

In occasione della morte di Antonio Rosmini (Rovereto 1797-Stresa 1855), l’Accademia della Crusca rivolse l’invito al Manzoni di tessere l’elogio dell’illustre suo amico deceduto. 

Il 7 luglio del 1855 egli rispose: “Per quanto sia la compiacenza ch’io possa sentire nel lodare Antonio Rosmini, è maggiore in me il desiderio di vederlo lodato degnamente, e questo mi obbliga a confessare che un tale incarico passa le mie forze. Quel tanto che dagli scritti e dai discorsi di quell’uomo unico, e non mai abbastanza pianto, ho potuto conoscere della sua sapienza, non serve che a farmi conoscere quanto mi manchi per poterne rendere un degno conto, soprattutto con dei rapidi cenni”. Ciò viene ricordato da Carlo Castiglione, prefetto dell’Ambrosiana.

Don Lisander commemora Napoleone, ma non tesse le lodi di Antonio Rosmini. Per il primo dimostra quanto la Provvidenza potrà fare con sereno giudizio. Per il secondo rivela il suo silente dolore, espresso con commovente devozione, che impedisce all’amico di commemorarlo con “dei rapidi cenni”.

 LUCIO CAUSO

CHIESA DEL CROCIFISSO E CONVENTO DEGLI ALCANTARINI DI PARABITA

CHIESA DEL CROCIFISSO E CONVENTO DEGLI ALCANTARINI DI PARABITA

Convento Alcantarini di Parabita 001

Le chiese e le “case” (conventi) degli Alcantarini, come quelle dei cappuccini, si assomigliano tutte, le une alle altre, essendo costruite in base a progetti edilizi statuiti e approvati dagli ordini religiosi. Gli Alcantarini di Lecce erano pronti a “sgarrare” fabbricati nuovi se questi non rispondevano agli schemi programmati per sostituirli con altre costruzioni nuove di fabbrica. Così fecero gli Alcantarini della chiesa di S Giacomo e delle altre consorelle di Lecce che s’indussero a demolire chiese non del tutto realizzate per costruire al loro posto le fabbriche dei conventi e delle chiese che la regola imponeva. Il più bel convento alcantarino di Puglia, secondo Michele Paone, è certamente quello della Vergine del Pozzo di Capurso, disegnato dall’architetto barese Giuseppe Sforza, e quel modello evoca il complesso edilizio che gli Alcantarini realizzarono “su un dolce declivio dell’ondulata campagna” di Parabita. Tra le prime fondazioni alcantarine in Terra d’Otranto, il convento di Parabita ebbe una storia interessante raccontata dal Padre P. A. Coco nelle sue cronache religiose. Sin dal 1726, gli Alcantarini di Terra d’Otranto, su richiesta dei membri dell’Università di Parabita, dei tutori dell’imberbe duca Giuseppe Ferrari e del clero secolare, ottennero i suoli necessari per completare nel 1731 la costruzione della chiesa del Crocifisso e del convento di Parabita, nel quale Clemente XII accordò alla duchessa di Parabita di entrare, in compagnia di due dame, due volte all’anno, per Natale e Pasqua. Stabilita l’osservanza regolare, il convento degli Alcantarini, che i cappuccini di Casarano e di Gallipoli avevano avversato, timorosi che la nuova comunità potesse ridurre i proventi delle questue, prosperò nell’apostolato dei suoi religiosi, nella carità dei parabitani, che avevano promesso una sovvenzione annua di quaranta ducati, e in quella dei paesi vicini. Soppressi durante la sovranità di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat , gli Alcantarini ripresero, sotto il regno di Ferdinando I di Borbone, il convento dal quale furono poi allontanati definitivamente nel 1866. Da quell’anno, nel convento rimase un solo Alcantarino al quale venne affidata la cura della chiesa e la custodia del cimitero che si trovava nell’orto retrostante gli ambienti ormai vuoti e deserti dell’ampio convento. Di questo fabbricato sono rimasti gli alti muri nei quali le finestre delle cellette illuminano i loro piccoli vani, il chiostrino a pilastri, il loggiato della passeggiata dei cappuccini scalzi (“scalzitti” come li chiamava Ferdinando IV di Borbone) e la chiesa dedicata al Crocifisso, sorta da una piccola cappella preesistente, con le immagini di S. Pietro di Alcantara e S. Pasquale Baylon, al lato del portale, il cui culto fu portato in Terra d’Otranto dagli Alcantarini. Inoltre essi diffusero il culto per la Vergine di Capurso e anche qui, come nei conventi di Capurso, Lecce, Squinzano e Galatone, gli Alcantarini si dedicarono alla confezione di piccoli reliquiari e deliziose miniature dorate per devozione alla Vergine. All’interno della chiesa, con la volta a lunette, si possono ammirare l’antico organo, il pavimento maiolicato e l’altare maggiore, poi la statua dell’Ecce Homo, il dipinto delle stimmate di S. Francesco d’Assisi e un piccolo presepe di antica fattura in stile napoletano. L’Ottocento, lasciò nella chiesa alcantarina l’altare dedicato a Santa Filomena, che il Vescovo Salvatore Lettieri, nel 1837, consacrò e dotò di indulgenze per incrementare la pietà popolare e la devozione che il bigotto re Ferdinando II di Borbone e i suoi famigliari avevano riservato alla Santa, venerata a Mugnano del Cardinale dalle folle di meridionali memori della bigotteria del suddetto re borbonico. Ora di questo antico convento è rimasto solo il pittoresco fascino del’abbagliante mole fatta di candidi muri immersa nel silenzio del vicino cimitero monumentale evocando i ricordi della sua antica storia fatta di pietà cristiana e di spiritualità dell’arte. 

Bibliografia essenziale: A. de Bernart, Vol. 1, Paesi e figure del vecchio Salento, Congedo Editore, 1980; M. Paone, Chiese di Lecce, Galatina, 1979; M. Paone, Lecce, città chiesa, Galatina, 1974; P. Antonio Primaldo Coco, I Francescani nel Salento (1517-1927), Vol. II, pp. 204-207, Taranto, 1928; Ferdinando IV di Borbone, Diario Segreto (1796-1799), U. Caldora, Napoli, 1965; G. Simoncini, Osservazioni sull’architettura del tardo 700 in Provincia di Bari, Facoltà di Architettura Università di Roma, 1956.

Febbraio 2023 – Lucio Causo