STORIA DELLA MORTALE CONTESA

STORIA DELLA MORTALE CONTESA

STORIA DELLA MORTALE CONTESA NATA NEL 1600 TRA LE  FAMIGLIE MANZONI ED ARRIGONI PER IL POSSESSO DELLE MINIERE DI FERRO IN VALSASSINA

Circa dieci anni fa, a Barzio, in un’antica biblioteca privata, mi capitò per caso fra le mani un vecchio manoscritto dalle pagine ingiallite che descriveva alcune vicende tragiche e dolorose degli avi di Alessandro Manzoni, un tempo ricchi proprietari di forni e miniere di ferro nel territorio di Lecco. Incuriosito, incominciai a leggere, perdendomi nel tempo, la storia di quegli avvenimenti che mi appassionarono tanto. Ed ora voglio raccontarvi come ebbero inizio.

Una volta, a Barzio, piccolo paese di montagna nell’alta Valsassina, in Lombardia, con poco più di 700 abitanti, vi ebbe lunga dimora l’antica famiglia degli avi di Alessandro Manzoni. Di quel paesello si parla nei “Promessi sposi” a proposito dell’invasione dei lanzichenecchi nel 1629. Barzio dette anche i natali alla Beata Guarisca della potente famiglia degli Arrigoni, che fece costruire un grande monastero ospizio sul monte Cantello che fu poi distrutto agli inizi dell’Ottocento. L’antica valle della Valsassina ed il territorio lecchese avevano all’epoca una grande importanza per la ricchezza dei giacimenti ferrosi esistenti nelle alte montagne del Varrone, per la dovizia dei boschi che fornivano carbone per i forni e le fucine, per la frequenza dei corsi d’acqua capaci di muovere i numerosi mantici d’aria e per la posizione geografica del borgo e del territorio circostante. Per tutto questo, fin dai secoli più antichi, vi fiorivano notabili famiglie interessate alla difesa di così delicato settore per la propria sicurezza e per quella dello Stato di Milano. E’ inutile dire che col tempo altre famiglie vi affluirono attratte dalla ricchezza dell’industria del ferro che andava sempre più espandendosi.

A partire dalla metà del secolo XVI la Valsassina e Lecco in particolare, grazie alla presenza del ferro, diventarono il miraggio dei più importanti casati della zona che ben presto incominciarono a contendersi la supremazia commerciale , la potenza e la ricchezza, ricorrendo anche all’intimidazione, alle minacce ed alla violenza.

Il casato dei Manzoni nel secolo XVI era assai diffuso nel territorio di Lecco. Ai tempi di San Carlo Borromeo contava molte famiglie nella comunità lecchese, a Germanedo, a Maggionico, ecc. In Valsassina tre famiglie vivevano a Cremeno, otto a Cassina, cinque a Concenedo, una a Barzio, undici a Moggio e sette alla Calmine. Con Giacomo iniziarono le fortune dei Manzoni destinati a diventare una grande potenza finanziaria e sociale nel periodo a cavallo tra il 1600 e il 1700. Dallo “stato delle anime” di Barzio del 12 aprile 1578 risulta che la famiglia di Giacomo Manzoni era composta da quindici persone : da lui, dalla moglie, da tre maschi e da due femmine, da due nuore, da cinque nipotini e da un “famiglio”. Giacomo ebbe quindi tre figli maschi : Giovan Angelo, che diede origine a due rami di cui il personaggio più importante fu un altro Giacomo vissuto nel 1600, sindaco generale della Valsassina nel 1664, barone di Monteferro, Grande di Boemia e Magnate di Ungheria, arricchitosi con l’industria e con il commercio del ferro ; Pompeo, del cui ramo divenne leggendario Ercole nato nel 1663, notaio dal 1685 e vice abate del Collegio Notarile nel 1705. Di lui si diceva che nella sua casa si era fatto costruire un trabocchetto e che, invitate con pretesti persone che non erano di suo gradimento, le faceva scomparire in un baratro sottostante. Tanto era il terrore che aveva suscitato in vita che ancora nel 1850 alcuni contadini raccontavano di avere incontrato Don Ercole su un cavallo di fuoco ; Pasino, che dalla moglie Margherita, figlia dell’illustre notaio Giovanni Maria Arrigoni, ebbe due figli : Giovan Maria e Giacomo Maria, dal quale venne poi Alessandro Manzoni.

L’industria del ferro che ancora nel 1500 alimentava l’arte delle armi in Milano, era ormai in declino. All’inizio del 1600 si stava però trasformando in una vera e propria industria pesante producendo palle di cannone per gli eserciti in armi. Pertanto, anche i sistemi ed i mezzi tecnici di produzione si stavano lentamente trasformando, tanto che durante la notte in Valsassina si levavano numerose le fiamme degli altiforni. Le due famiglie più potenti nella produzione del ferro erano quelle degli Arrigoni e dei Manzoni le quali avevano acquistato miniere e fabbriche di ferro a partire dalla metà del secolo XVI. Gli Arrigoni avevano cave più povere di ferro e cercavano di intralciare l’attività dei Manzoni che possedevano le ricche miniere dell’alto Varrone. Nacque così una concorrenza spietata e mortale che assunse forme di grande violenza. Al principio del 1600, a Cremeno, i tre fratelli Bonacorso, notaio, Giovan Giacomo, giureconsulto, e Giovanni Arrigoni, erano molto potenti ed influenti per la loro ricchezza e per le loro conoscenze. Essi commerciavano in ferro ed erano proprietari di un gran numero di fucine. Con la prepotenza, con l’astuzia e la violenza, concludevano contratti a loro favorevoli per il taglio dei boschi sia con le comunità che con i privati. Giunsero così al Senato numerose  accuse nei loro confronti, per cui il massimo organo di giustizia milanese annullò i contratti dei  ricorrenti dando incarico al Pretore della Valsassina di procedere secondo giustizia. Con sentenza del 27 settembre 1610 fu tolto a Bonacorso Arrigoni il notariato civile e criminale, costringendolo alla vendita dell’importante titolo dietro compenso di una congrua somma. Quindi il Pretore istituì il giudizio dichiarando gli Arrigoni “rei di violenza, di estorsione e di manifesta tirannide, avendo essi costretto le comunità a vendere boschi per prezzo vilissimo, senza permettere il ricorso a pubblica asta”. Durante lo svolgimento del processo, gli Arrigoni vennero incarcerati perché la Città di Milano intimò al Pretore di non rilasciarli senza espresso ordine del Senato. La prepotenza degli Arrigoni, che dopo qualche tempo vennero rilasciati, grazie all’intervento di protettori e con il versamento di consistenti somme di denaro, suscitò una lunga serie di vendette che sconvolse la vita ai componenti delle famiglie Arrigoni e Manzoni.  Il 10 luglio 1621 Giovanni Arrigoni fu assassinato con una  archibugiata mentre attraversava il bosco del Cantello sopra Barzio. Nel 1629, con la guerra di Mantova, i lanzichenecchi invasero la Valsassina. Il loro passaggio fu punteggiato da rapine, distruzioni, stupri ed assassinii, nonché dai bacilli della peste che divampò rapidamente mietendo decine e decine di vittime in ogni paese. La gente che non era stata contagiata dal male inguaribile, terrorizzata ed inferocita, cercava senza tregua gli “untori”, coloro che diffondevano la peste insozzando i muri delle case con liquidi immondi tratti dai bubboni dei morti. A Cremano, vennero accusati di avere insozzato le chiavi e le porte delle case degli Arrigoni, un certo Francesco, detto “Bonazzo”, agricoltore, appartenente ad un ramo plebeo dei Manzoni, la figlia Maria Elisabetta, i suoi familiari Bernardo Bocaretti e Giovan Battista Ponchietti, nonché due loro amici, Caterina Rozana e Simone Manzoni. Il Manzoni e la Rozana, torturati durante il processo, rei confessi, vennero condotti a Milano sul patibolo. Lì vennero tormentati con tenaglie roventi e dopo avere loro mozzata la mano destra  ed infrante le ossa, vennero levati in cima ad un palo e “intrecciati” con la ruota. Dopo sei ore vennero sgozzati e dati alle fiamme. Le ceneri furono gettate nella roggia che chiude la piazza ( la stessa fine atroce di Giacomo Mora ne “La colonna infame”). All’epoca, deputato per la Sanità nella Valsassina era Giovanni Ambrogio Arrigoni, giureconsulto, figlio di quel Giovanni Arrigoni assassinato con una archibugiata il 10 luglio 1621 nel bosco del Cantello, sopra Barzio. Era stato lui a costringere Maria Elisabetta con minacce e blandizie varie, a deporre contro Giacomo Maria Manzoni, per vendetta, accusandolo di avere incaricato il “Bonazzo” ad ungere le porte dell’Arrigoni e di suo fratello Antonio Francesco, notaio, morto poi di peste, con “l’untume” dallo stesso preparato e distribuito. L’Arrigoni aveva poi indotto Bernardo Cocaretti, di appena 15 anni, e Caterina Rozana a deporre il falso sotto tortura contro Giacomo Maria Manzoni e contro il cugino Giacomo Manzoni, figlio di Pompeo, di Barzio, incolpandolo di aver ricevuto dal “Bonazzo” il malefico unguento per ungere le case degli Arrigoni e di essersi abbandonato a pratiche demoniache. A seguito di tale deposizione erano stati confiscati a Giacomo Manzoni tutti i suoi beni, tra cui 8 quintali di ferro lavorato e circa 18 tonnellate di minerale di ferro, presso il forno di Soglia, sopra Premana. Dopo qualche tempo, le autorità milanesi scoprirono il falso ed arrestarono l’Arrigoni per tutti i soprusi, gli inganni, le minacce, le torture e le condanne perpetrate ingiustamente a danno dei Manzoni. Ma nel maggio del 1631 l’Arrigoni riuscì a fuggire dalle prigioni Reali di Milano e di lui non si seppe più nulla. La faida si acquietò per breve tempo, ma si riaccese per mano di Emilio Arrigoni, appartenente al ramo di Esimo, possessore di forni e di miniere sui monti di Perlasco. Nel 1636 il Duca di Rohan, guidato da Sebastiano Pomi detto Polognina, mercante di ferro ed amico e sostenitore dell’Arrigoni, scese con l’esercito francese dalla Valtellina distruggendo i forni dei Manzoni e dei Buzzoni sul Verrone. Risparmiò soltanto i forni di Emilio Arrigoni, grazie alle indicazioni del Polognina. Così facendo Emilio Arrigoni pensava di poter eliminare una volta per sempre la concorrenza dei Manzoni ed aumentare il prezzo del ferro che usciva dai suoi forni, assai più poveri e malandati di quelli dei Manzoni e più lontani dalle miniere che fornivano il materiale ferroso non sempre di buona qualità. Ma, giunto a Lecco, il Duca di Rohan trovò sbarrata la via di accesso alla città e dovette ritirarsi in Valtellina. Il Pomi venne catturato per ordine della Curia, accusato di fellonia ed incarcerato. I Manzoni ed i Buzzoni si dettero da fare per ricostruire i forni e gli edifici distrutti dai francesi e nel 1640 erano già pronti per accendere il fuoco e riprendere la produzione del ferro.

2 pensieri su “STORIA DELLA MORTALE CONTESA

    1. Gent. mo Sig. Beppe Roncari, io nel febbraio del 2022 non stavo bene, ero rientrato da poco dalla Casa di Riposo EuroItalia dove ero stato ricoverato per motivi di salute e non ricordo bene se le ho risposto o meno. Mi può chiedere adesso se le interessa sapere qualcosa ull’articolo della “miniera infame”. Grazie per l’interessamento e tanti cari saluti. Lucio Causo.

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