L’OPERA DEL CARDINALE SCHUSTER PER RISPARMIARE ROVINE E SANGUE ALL’ITALIA SETTENTRIONALE

L’OPERA DEL CARDINALE SCHUSTER PER RISPARMIARE ROVINE E SANGUE ALL’ITALIA SETTENTRIONALE

25 aprile 1945, il drammatico incontro fra il Cardinale Schuster e Mussolini. L’Arcivescovo di Milano fece un ultimo tentativo di mediazione fra il duce e la Resistenza, mentre Milano insorgeva. Al Cardinale, più di ogni altra cosa, premeva salvare la città da ulteriori orrori e sofferenze, nel timore che si combattesse casa per casa. Ma Mussolini di fronte alla richiesta di resa incondizionata e saputo che delle trattative separate dei tedeschi, preferì fuggire verso Como, andando così incontro al suo destino. Sandro Pertini racconta che in quella sede si stava tentando di salvare la vita a Benito Mussolini trovando un accordo all’insaputa di comunisti e socialisti, che mai avrebbero approvato e mai approvarono per la sua resa e consegna al Comitato di Liberazione Nazionale; l’Arcivescovo di Milano si faceva garante della eventuale intesa. Ma l’incontro fallì e l’insurrezione di Milano era iniziata, nessuno e nulla avrebbe potuto fermarla. Mussolini raggiunse Como da dove poi, con codardia, tentò la fuga travestito da soldato tedesco. Fu in quel frangente che il compagno Pertini incontrò, per la prima e unica volta, il dittatore fascista.

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CARDINALE SCHUSTER, ARCIVESCOVO DI MILANO (fonte Famiglia Cristiana)

Come si apprende dalla nobilissima lettera dell’Eminentissimo Cardinale Arcivescovo Schuster, già da qualche tempo le Autorità Ecclesiastiche, avevano ripreso le trattative iniziate da alcuni mesi prima con le Autorità militari e civili e del Comitato di Liberazione Nazionale allo scopo, di accorciare, se fosse stato possibile, il conflitto e ad ogni modo per risparmiare alle nostre città le conseguenze di più gravi disastri. Le trattative furono intensificate precisamente col verificarsi dell’avanzata alleata. E le conclusioni alle quali si giunse riaffermando il proposito di risparmiare qualsiasi distruzione di stabilimenti che sarebbero restati sostanzialmente in piena efficienza lavorativa; tutti i mezzi di produzione intatti, servizi pubblici, acquedotti ecc., salvaguardando quindi il lavoro e la possibilità di ripresa per l’Italia intera e per Milano in particolare. Nessun ostaggio (ed era il gioco angoscioso di vita contro vita!) ed anzi liberazione dei prigionieri politici, evitando il rischio di cruente intempestive evasioni, che avrebbero costato la vita ad integerrimi patrioti e forse avrebbero rimesso in circolazione delinquenti comuni. Si assicurava inoltre che il trapasso dovesse avvenire nella forma più ordinata possibile nelle mani degli uomini già designati e con responsabilità e funzioni dal C.L.N.A.I. (Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia), senza soluzione di continuità, evitando gravi disordini, dispersioni di beni di consumo, che debbono invece essere disciplinatamente mobilitati per la popolazione tutta. Si era dunque ottenuto che Milano non diventasse in alcun modo il centro della resistenza disperata, col convergere in essa di tutti gli elementi militari del passato regime, risparmiando così alla città ambrosiana le distruzioni estreme e lo spargimento di sangue, e tutto questo senza intralciare, anzi favorendo il programma del C.N.L.A.I. anche in quest’opera di giustizia che si può e si dovrà realizzare nell’ordine attraverso i regolari tribunali, nel ripristino della tradizione italiana gelosa di quel diritto che risale a Roma cristiana e che, mentre esige la luce completa, rifiuta ogni arbitrio. Nel prosieguo delle trattative, mentre la situazione andava sempre più aggravandosi, chiese un colloquio con Sua Eminenza Benito Mussolini che fu ricevuto al Palazzo Arcivescovile giovedì nel pomeriggio alle 17,15. Mussolini giunse accompagnato da Zerbino, Barracu e dal dott. Bassi. Più tardi giunse anche il maresciallo Graziani, il quale procedette per i saloni arcivescovili, fino all’antisala dove si svolgevano i colloqui, tenendo in mano una grossa rivoltella, che posò sul tavolo del segretario, Don Terraneo. Il colloquio si svolse prima intimamente fra il Cardinale e Benito Mussolini e poi col seguito fino alle 18,30 e fu diretto ad ottenere l’evacuazione da Milano delle forze armate germaniche. A quell’ora sopraggiunsero il Generale Raffaele Cadorna ed il prof. Marazzi, in rappresentanza del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia e del Corpo dei Volontari delle Libertà. Naturalmente tanto del primo che del secondo colloquio non si hanno particolari precisi ma solo diffusi. Si sa che, mentre il primo fra l’Arcivescovo e Mussolini ebbe carattere intimo, il secondo venne impostato sulla resa senza condizioni. Al termine del colloquio, Mussolini dichiarò che avrebbe dato una risposta risoluto entro un’ora, e si allontanò con Graziani, Zerbino, Barracu e Bassi, tornando in Prefettura. In Arcivescovado si attese invano la risposta e quando alle 21 si telefonò per sapere qualche cosa venne risposto che Mussolini col suo seguito avevano lasciato Milano, dalla quale nella stessa serata – e qualcuno nella giornata – si erano allontanati frettolosamente i Ministri ed i Ministeri, che qui avevano preso sede da qualche tempo, le autorità ed i così detti gerarchi, alti e bassi. Il comando della città veniva così assunto dal Comitato di Liberazione Nazionale che si insediava nel palazzo della Prefettura. Veniva nominato commissario della Provincia l’ing. Riccardo Lombardi; questore, il comandante Elia, ufficiale della Regia Marina; sindaco l’avv. Antonio Greppi e vice sindaco l’arch. Zanchetta. Intanto già nella mattinata Milano aveva espresso i suoi sentimenti, mano mano che la situazione andava aggravandosi e veniva pienamente giustificato ed approvato lì’intervento sollecito e paterno dell’Arcivescovo Schuster, ancora tanto premuroso delle sorti della città, e la decisione del Comitato di Liberazione Nazionale e dei Partiti che lo componevano. In molti stabilimenti, sopraffatti i pochi elementi contrari e qualche impenitente facinoroso, fu abbandonato il lavoro e nelle prime ore del pomeriggio anche i tranvai furono fatti rientrare nelle rimesse; il servizio tranviario delle linee foresi già non funzionava da due giorni. Spontaneamente, quasi rispondendo ad intese da lungo tempo decise, tutti i negozi si chiusero e le vie cittadine andarono animandosi, come nelle grandi occasioni. Nessun incidente grave si ebbe a lamentare per tutta la serata, nonostante che piccoli sparuti gruppi di fascisti repubblicani – all’oscuro evidentemente della sorte toccata al loro partito e decisa dai suoi capi – niente avessero tralasciato per intervenire con qualcuno dei sistemi e mezzi provocatori, così largamente usati in passato. Ma quella mattina la situazione era completamente cambiata. Nelle sedi appropriate un disperato appello venne lanciato alle Brigate Nere: non un fascista in divisa, non uno qualunque degli appartenenti alle formazioni armate del partito fu visto circolare; viceversa camion, automobili e camioncini carichi di membri del Comitato di Liberazione Nazionale nei numerosi giri di ispezione e di controllo nei quartieri cittadini, anche più popolari, venivano accolti da acclamazioni e da dimostrazioni di soddisfazione e di consenso. In qualche punto fu necessario intervenire con le armi e, durante le sparatorie, si ebbero a lamentare alcuni morti ed una quindicina di feriti. La mattina precedente elementi della “Muti” avevano arrestato un giovane sacerdote, Don Angelo Riva, coadiutore a San Giorgio al Palazzo, ed a chi ne chiedeva loro conto risposero che l’avrebbero tenuto in ostaggio; nella stessa mattinata il sacerdote venne però rilasciato. 

Bibliografia essenziale: “L’Italia” – Giornale Cattolico – 29 aprile 1945; Altri periodici dell’epoca; Luca Frigerio, “25 aprile 1945” – “Il drammatico incontro fra il Cardinale Schuster e Mussolini”, “Chiesa di Milano”, 24 aprile 2015; Antonio Spinosa, Mussolini, Il fascino di un dittatore, Le Scie, Mondadori, 1989; 

Dicembre 2023 – Lucio Causo

MARIE LOUISE ANTENUCCI

MARIE LOUISE ANTENUCCI

PROFESSORESSA E CHEVALIER IN FRANCIA

Marie Louis Antenucci, professoressa di storia-geografia e d’italiano in Lorena (Francia) dopo 30 anni, è stata nominata Chevalier dans l’ordre des Palmes académiques (Cavaliere dell’ordine delle Palme accademiche). Il diploma e la medaglia le sono stati consegnati il 6 marzo 2019 dal Provveditore del Liceo Alfred Méziéres di Longwy nel corso della cerimonia organizzata dal Dipartimento dell’Educazione Nazionale Francese.

La stessa professoressa, nel 2018, in occasione della giornata internazionale della donna, nell’ambito del “Premio Comitato di Metz degli Italiani all’Estero”, era stata selezionata dal Consolato Generale d’Italia a Metz, quale Donna dell’Anno 2018 del Grand Est di Francia.

La prof. Marie Louise Antenucci, considerata infaticabile ambasciatrice culturale in Francia, dopo avere conseguito nel 2000, presso l’Università di Metz, il dottorato di Storia sul tema Les Italiens en Moselle, 1870-1940, ha insegnato storia e geografia nelle scuole medie e nei licei della Lorena. Attualmente gestisce i corsi di italiano e francese presso la sezione europea del Liceo Alfredo Mezièrs di Longwy, per la preparazione degli studenti al conseguimento del doppio diploma di Baccalaureat e Maturità chiamato ESABAC.

Da oltre vent’anni al dipartimento di Meurte e della Mosella promuove la lingua e la cultura italiana presso le scuole e le università francesi. La prof. Antenucci ha anche promosso nella regione la conoscenza dell’emigrazione italiana nell’Est della Francia.

Per il suo impegno nel Consiglio di Amministrazione del Festival del Cinema italiano di Villerupt, giunto alla 41^ Edizione, Marie Louis ha ricevuto dalla Municipalità di Villerupt il riconoscimento della Città e della Comunità cittadina, alla presenza del Sindaco, del Console Generale di Metz e del Presidente del Comitato degli Italiani all’Estero di Metz. Inoltre ha partecipato sempre a Villerupt alla presentazione del documentario “Histoires d’une nation” realizzato da Yann Coquart sulle vicende dell’immigrazione italiana in Francia.

Marie Louise Antenucci, storica e scrittrice di chiara fama, è nata nel 1965 a Longwy, poco distante da Villerupt, nella regione della Lorena, da una coppia di genitori italiani, Giulio Antenucci (abruzzese) e Gabriella Tarantino (pugliese), emigrati in Francia. Oltre all’impegno a favore del locale Festival del Cinema italiano, ha scritto dodici libri di storia riferiti alla città di Villerupt e ai percorsi dell’emigrazione italiana in Francia . Dalla sua tesi di laurea, uscita nel 2000, pubblicata nel 2004 col titolo “Les Italiens en Moselle, 1870-1940”, premiata dall’Università di Lorena e dai Conseils Gènèraux de Lorrain, ha scritto altri due libri sull’immigrazione dei lavoratori italiani nella Mosella e poi nove volumi, con il decimo in corso di pubblicazione, sulla storia della città di Longwy, diviso in sezioni tematiche che vanno dalla vita quotidiana allo sport.

Marie Louise Antenucci, intervistata dall’Echo D’Europe (n. 7/2018), alla domand: “Come mai ha posto un’attenzione così forte alla storia del suo paese”, ha risposto: “ Perché, siccome a Longwy  vi sono molte persone provenienti da Stati diversi, conoscere la storia del posto in cui si vive è un fattore che aiuta molto a stare più serenamente gli uni con gli altri ”. Secondo la Antonucci, studiare la lingua e la storia prepara un futuro migliore per le nuove generazioni e porta a scoprire insieme un mondo nuovo. Nei suoi libri e nelle sue lezioni, la professoressa sottolinea che gli episodi di razzismo non sono stati sempre rivolti verso le popolazioni africane e dell’Asia, ma anche, all’inizio del XX secolo, agli emigrati italiani, trattati molto male. Conoscere e sapere queste cose vuol dire allentare le tensioni xenofobe e razziste che in questi ultimi anni stanno mettendo piede in Europa.  

LADY MORGAN: FOMENTATRICE DI CARBONICA INDIPENDENZA (1822)

LADY MORGAN: FOMENTATRICE DI CARBONICA INDIPENDENZA (1822)

L’iconografia risorgimentale ha concentrato l’attenzione nella celebrazione di Ana Maria De Jesus Riberio, più nota come Anita Garibaldi, la cui figura, nelle pose di combattente, di presenza costante accanto al suo Generale, di malata trasportata a fatica tra le valli di Comacchio, moribonda su un carretto o su un letto, è stata immortalata da diversi ignoti pittori, nonché in monumenti.

Solo recentemente la ricerca storiografica ha illuminato una realtà di presenze femminili partecipi, in vari modi, agli eventi risorgimentali, colmando così una spiacevole lacuna e, quasi con sorpresa, scoprire che quelle lotte e quelle aspirazioni furono condivise anche da un numero considerevole di donne, fino ad allora relegate, almeno nell’immaginario collettivo alimentato da una letteratura sentimentale, al ruolo di madri, sorelle, mogli che si erano caricate sulle proprie spalle le difficoltà che derivavano dalla latitanza o dalla prigionia dei loro congiunti.

Si potrebbe dire che maggior fortuna abbiano avuto invece le donne, le drude, dei briganti che hanno trovato spazio e risonanza in recenti pubblicazioni, raffigurate in una dimensione picaresca, trasgressive, antesignane di un rifiuto del conformismo cui le sottoponeva la società dell’epoca; quasi che la stessa tensione di affrancamento non appartenesse a una Enrichetta Di Lorenzo, moglie di Dioniso Lazzari, che intrecciò una tormentata relazione amorosa con il cugino del marito, l’anarchico Carlo Pisacane, massacrato nella sfortunata avventura di Sapri il 2 luglio 1857: non solo condivise le fughe e gli esili, ma partecipò attivamente, affrontando gli austriaci, nelle Cinque Giornate di Milano nel 1848, e nel 1849 si trovò pienamente coinvolta nella difesa della debole Repubblica Romana, prodigandosi nell’assistenza ai feriti e ai moribondi, soggetta, dopo la morte di Carlo a continui trasferimenti per sfuggire alla polizia. La fitta corrispondenza tra i due è andata purtroppo perduta, distrutta alcuni decenni dopo da un’altra donna che ne era venuta in possesso, «sopraffatta da scrupoli morali!».

Quasi che Bianca Milesi, di origini borghesi, pittrice non sia stata una femminista ante litteram che sostenne i patrioti risorgimentali non solo disegnando l’emblema del Battaglione degli studenti di Pavia o inventando una carta crittografata con cui i congiurati comunicavano tra loro.

Certamente la società ottocentesca affidava alle donne sostanzialmente i ruoli di mogli e di madri, ma vi fu chi, contravvenendo alle convenzioni sociali, vestì abiti da uomo per scendere nelle piazze e combattere o per partecipare alla spedizione dei Mille, come la padovana Tonina Masanello; donne che rischiavano la propria reputazione, il carcere o addirittura la vita per portare aiuto ai patrioti prigionieri, mantenere i contatti, trasmettere messaggi nascosti tra i capelli come usava la contessa Marina Gambarana Frecavalli o tra la biancheria, come la gallipolina Antonietta De Pacealla quale negli ultimi anni sono state dedicate non poche ricostruzioni biografiche.

Se molti patrioti hanno affidato ai posteri il ricordo delle loro azioni sotto forma di memorie, altrettanto non è avvenuto, quantitativamente, per quelle donne che vissero quegli anni e solo epistolari indiretti, come le Ricordanze di Luigi Settembrini, o più diretti come le autobiografie della milanese Cristina Trivulzio Belgioioso, delle napoletane Enrichetta Caracciolo e Grazia Mancini, consentono di percepire quale ruolo possano aver giocato le donne.

La partecipazione femminile ai moti risorgimentali fu quindi a vari livelli, ma soprattutto svolsero una funzione di aggregazione e di collegamento utilizzando i propri salotti dove si incontravano i cospiratori e dove era possibile raccogliere i fondi per sostenere gli esuli e finanziare le attività rivoluzionarie.

Lodevole e di grande interesse è pertanto la pubblicazione curata dal Comune di Napoli in occasione del 150° dell’Unità d’Italia, Il Risorgimento Invisibile. Patriote del Mezzogiorno d’Italia, scritto a più mani, che porta alla ribalta i profili biografici di molte donne meridionali, di militanti nel movimento risorgimentale, alla cui consultazione, disponibile anche sul web, rinviamo il lettore.

Un capitolo è dedicato a due figure straniere, Jessie White, giornalista, storica e militante del Risorgimento, di origini inglesi, moglie di Alberto Mario, garibaldino, imbarcatasi con i Mille come infermiera; il suo fervore le procurò l’appellativo di Miss Uragano, mentre Giuseppe Mazzini la definì la Giovanna d’Arco della causa italiana; la francese Louise Revoil Colet, poetessa, romanziera, bella, focosa, intraprendente, moglie del musicista Hippolyte Colet, frequentatrice di Victor Hugo, di Alfred de Musset e Alfred de Vigny, amante di Gustave Flaubert e sua musa ispiratrice per Madame Bovary, che prese a cuore i moti unitari e in onore dei Fratelli Bandiera scrisse un’ode.

Questa incursione di donne straniere nella pubblicazione di sopra citata offre l’opportunità di rievocare un’altra scrittrice la cui opera mise in allarme la polizia borbonica e sulle cui tracce fu ordinato di porsi anche alle autorità di Terra d’Otranto, perché è ben noto che compito di ogni polizia, sotto qualsiasi sistema politico, è di tenere sotto controllo il territorio, verificare e relazionare sullo spirito pubblico, adoperarsi per la sicurezza interna dello Stato, prevenire e reprimere ogni manifestazione tesa a criticare, scalfire o sovvertire l’ordine costituito; tale legittima e ovvia attività si svolge in forme e pressioni diverse a seconda della forma di governo, autoritario o democratico.

Nel periodo prerisorgimentale, il Regno di Napoli era tenuto sotto l’occhiuta vigilanza della polizia borbonica e nell’Archivio di Stato di Lecce si conserva una voluminosa documentazione relativa all’azione preventiva e repressiva posta in atto dagli organi locali.

In altre sedi e più autori si sono occupati di evidenziare in quale misura e con quale violenza la Terra d’Otranto sia stata oggetto della vigilanza poliziesca rivolta sia nei confronti dei cosiddetti attendibili, riscaldati, sia nei confronti della stampa e come essa si acuisse a ridosso di eventi particolari quali la concessione della Costituzione del 1820, il colpo di stato francese del 1830, gli eventi del 1848, l’impresa dei Mille.

Scorrendo la documentazione presso l’Archivio di Stato di Lecce, con particolare attenzione agli Atti di polizia riguardanti la vigilanza sulla stampa per il periodo 1830-1849, l’attenzione è stata attratta dalla corrispondenza relativa alla ricerca, al sequestro e alla distruzione del libro, diviso in due volumi, della scrittrice e viaggiatrice irlandese Lady Morgan intitolato Italy.

Una riservata datata Napoli 17 gennaio 1822 veniva diramata nel Regno e ordinava il blocco di «un libro indegno… fomentatore di carbonica indipendenza»[1].

     Il Commissario Generale della Polizia Reale ordinava la proibizione di un libro, tradotto dall’idioma inglese, di cui era autrice Lady Morgen. Cotesto libro veniva diffuso anche nella Provincia di Terra d’Otranto: un libro indegno che era stato bruciato per mano del boia a Parigi, in Torino ed in Venezia. Nella città di Roma si facevano ricerche per vedere se alcun esemplare potesse esistere presso qualche libraio, o particolare venditore di libri, onde poi requisirlo e consegnarlo pubblicamente alle fiamme vendicatrici di così nefando libello, fomentatore di carbonica indipendenza.

Come si può ben notare dalla nota diramata non vi è l’indicazione del titolo dell’opera e lo stesso nome dell’autrice appare corrotto nella trascrizione, si fa riferimento ad una traduzione (ma risulta che ve ne sia stata una non in italiano ma solo in francese), rendendo così più difficoltose le ricerche.

L’originario nome dell’autrice era in effetti quello di Sydney Owenson, figlia di Robert, un attore cattolico irlandese che aveva a sua volta anglicizzato il suo cognome Macowen, e di Jane Hill, protestante. Sydney non rivelò mai la sua esatta data di nascita, collocabile tra il 1776 e il 1783 (o addirittura al 25 dicembre 1785, come lei stessa, certamente bugiardamente, affermò); ricevette un’educazione adeguata per una giovane borghese dublinese, inizialmente dai genitori, soprattutto dal padre, e rivelando ben presto delle doti particolari tanto che già nel 1801 aveva pubblicato un primo libro di poesie al quale seguì, nel 1802-1803, un primo romanzo, mentre il secondo vedeva le stampe nel 1805. Fu il terzo, diviso in tre tomi, pubblicato nel 1806, a darle successo e risonanza non solo nazionale e per il quale è più nota: The wild Irish girl. Tema centrale di questo romanzo era la rivendicazione nazionale di quell’Irlanda che con l’Act of Union del 1800, si era vista cancellare la propria indipendenza e il conseguente scioglimento del suo secolare parlamento.

Nel 1812 sposò Lord Thomas Charles Morgan, medico personale di Lord Abercon, avvalendosi, a buon diritto, del titolo di Lady Morgan, nome con i quale era molto nota negli ambienti sociali e culturali.

Il XIX secolo fu caratterizzato da quel fenomeno odeporico legato al Grand Tour per l’Europa, e l’Italia era una delle mete favorite dall’aristocrazia e dagli artisti. Sfugge ai più che a prendere parte a questi avventurosi e perigliosi viaggi fossero anche donne e Lady Morgan apparteneva a quella schiera di viaggiatrici per le quali un viaggio in Italia comportava anche coinvolgimenti politici e problematiche sociali.

Tra i nomi di rilievo di donne che intraprendevano avventurosi viaggi in Italia(stimolate non solo da uno spirito di emancipazione, da una tensione verso una crescita personale, ma anche dalla partecipazione emotiva, politica, intellettuale, alla ricerca dell’Indipendenza nazionale in quanto i movimenti liberali, costituzionalisti, indipendentisti combaciavano con le loro aspirazioni di affrancamento dai ruoli cui la società del tempo assegnava loro), ne evidenziamo alcuni: Mary Shelley (autrice, oltre che del più notoFrankestein e di altri romanzi e racconti, di A Vindication of the Rights of Woman with Strictures on Political and Moral Subjects); Margaret Fuller, giornalista e scrittrice americana che sposò il marchese romano Giovanni Angelo Ossoli, autrice di un saggio intitolato Il grande processo: l’uomo contro gli uomini, la donna contro le donne; FrancesTrollope; più tardi, ma con altri intendimenti, Janet Ross.

Il viaggio in Italia di Lady Morgan fu raccontato nel suo libro, in due volumi, intitolato Italy, pubblicato nel 1821[2].

    Quando nel dicembre del 1819 Lady Morgan giunse a Roma, vide sgretolarsi davanti ai suoi occhi l’immagine letteraria e romantica di quella città che era stata la dominatrice del mondo; rimase negativamente colpita dalla commistione del poter temporale con quello religioso, dal connubio innaturale tra trono e altare.

Più avanti seguirà una analisi della pubblicazione, poiché al momento interessa seguire da vicino le azioni intraprese dalla polizia borbonica.

     L’Intendente di Terra d’Otranto, pochi giorni dopo, diramò ai Sotto Intendenti e ai Giudici del Circondario le istruzioni per ricercare il libro, aggiungendovi l’aggettivazione di «nefando libello».

     Con pari solerzia risposero i diversi organi periferici assicurando di aver preso nota dell’ordine ricevuto e di aver immediatamente impartito le opportune e necessarie disposizioni e di aver predisposto un’attenta vigilanza a che «l’infamante» libro non fosse introdotto nei Circondari di pertinenza.

Qualcuno assicurò di aver condotto le ricerche con esito negativo, ma vale la pena riportare tutte le risposte presenti nell’Archivio di Stato di Lecce, evidenziando quella del giudice Pasanisi da Soleto che approfitta dell’occasione per dichiarare che nel suo Circondario esistono persone di provata morale e sana politica; quella del giudice di Campi che appare come la ripetizione pedissequa di uno scolaretto che vuol dimostrare di aver ben recepito l’ordine alla lettera. Dalla loro lettura emerge una rituale e formale aderenza alle direttive ricevute.

Di questo nefando libro di Lady Morgan, già bruciato dal boia a Parigi, Torino e Venezia perché fomentatore di carbonica indipendenza, in tutto il Regno di Napoli non si trovò mai traccia; ebbe, invece, un maggiore riscontro nel Nord dove suscitò qualche dibattito.

Ci è stato possibile leggere il secondo volume di Italy, digitalizzato da Google, e ne abbiamo gustato la scrittura, la vasta erudizione, la sottile ironia, l’occhio attento, la capacità di andare oltre la superficie dell’apparenza, consentendoci quindi di partecipare al nostro lettore i temi in esso contenuti, e rispondere al quesito se il suo contenuto fosse realmente, e in quale misura, pericoloso per il potere borbonico.

La risposta va ricercata nei giudizi, sparsi qua e là, sulla condotta morale, su certe forme di libertinaggio, sull’assenza d’istruzione, sul costume del baliato, su quello di fasciare gli infanti, sul rifiuto del vaccino, sulle figure dei cavalier serventi, sulla riproposizione di stereotipi negativi tanto sull’Italia, tanto sugli italiani. Pesava anche, molto certamente, la nomea che le opere di Lady Morgan erano pregne di una veemente polemica nei confronti dei Borbone, sia francesi che spagnoli; di un’aspra critica al potere temporale dei papi, alle ingerenze dei preti e dei monaci nella vita delle persone.

In Italy, Sydney Owenson nel descrivere ciò che vede, i paesaggi, i monumenti, la vita quotidiana, mostra di avere un suo punto di vista, un atteggiamento critico e comparativo.

A impensierire non era tanto il capitolo XXIII dedicato alla città di Napoli con la descrizione dei suoi monumenti e siti interessanti, quanto il capitolo XXIV dove, dopo una ricostruzione storica che giunge ai suoi giorni, si riferisce all’ancora fanciullo Ferdinando IV di Borbone.  

Lady Morgan stigmatizza le maniere popolane del re nell’usare il dialetto dei lazzaroni; ironizza sulla sua totale sottomissione, marito e schiavo di Carolina nei confronti della quale esprime giudizi pesanti.

Altrettanto forti sono le pagine sulla politica repressiva e sull’entourage politico che circondava Ferdinando IV, non risparmiando John Acton definito «avventuriero»; sulla rivoluzione del 1799; sui confronti con il periodo murattiano; sulla presa di posizione che ella assume in difesa di un popolo abbandonato a se stesso evidenziando invece come il Regno di Napoli avesse dato i natali a illustri personaggi e che quelle spesso esagerate attribuzioni che si danno ai napoletani di essere falsi e disonesti siano, in realtà, il risultato del sottosviluppo sociale e culturale.

Nel suo scritto l’autrice denuncia l’abisso esistente tra il popolo e le classi superiori rappresentate dai nobili, dai proprietari, dalle professioni e sottolinea ancora una volta l’incapacità di un re la cui incompetenza era nota alla stessa massa dei lazzaroni che con lui sapevano di poter condividere una sola passione, mangiare maccheroni.

Lady Morgan esprime tutta la sua solidarietà e vicinanza.

La carbonica indipendenza fomentata dal libro è presente nelle pagine in cui Lady Morgan esprime il suo entusiasmo per la Carboneria e definisce i carbonari patrioti, persone disinteressate e coraggiose.   

Abbiamo sintetizzato a grandi linee le tematiche trattate nelle cinquantadue pagine che formano il XXIV capitolo, estrapolando solo alcuni passi, ritenendoli sufficienti per comprendere che vi era abbondante materia per suscitare apprensione e scatenare la caccia poliziesca.

Quelle pagine oscuravano le altre in cui Lady Morgan descriveva ed esaltava tanti altri aspetti positivi che aveva registrato a Napoli e nel regno.

Sydney Owenson, ovvero Lady Morgan, si pone quindi in quella scia di donne che ebbero delle influenze in quel particolare momento storico. Ella si pone nella scia letteraria di Madame De Staël (addirittura anticipandola); fa parte di quella schiera di donne superiori, enfatizzata e proposta dalla letteratura dell’epoca; in quanto viaggiatrice, va inserita in quell’altra legione di donne che, affrontando non poche difficoltà, attraversavano l’Europa, entravano in contatto con realtà culturali e sociali con le quali dialogavano, sia direttamente, che indirettamente, attraverso i loro scritti, poetici, letterari, di impressioni di viaggio.

Il Risorgimento non si esplicitò semplicemente negli atti di ribellione, nelle rivolte di piazze e di città, di battaglie, ma alla base vi erano dei sentimenti animati e vivificati dalla cultura, dall’arte nelle sue diverse espressioni: si pensi ad Alessandro Manzoni o a Giuseppe Verdi che di fatto non presero parte attiva ai movimenti, ma il loro pensiero, la loro scrittura in versi o in prosa o in musica rappresentavano dei punti di riferimento di ideali da perseguire.

Ideali condivisi da quell’“altra metà del cielo” che una letteratura e una storiografia al maschile ha in qualche maniera minimizzato se non addirittura appannato.

[1] I documenti di seguito riportati sono in ASLE, Intendenza di Terra d’Otranto, Atti di polizia, “Napoli 1822-Proibizione del libro di Lady Morgen tradotto dall’idioma inglese, busta 114, fasc. 3698, Anno 1822.

[2]Lady Morgan, Italy, in two volumes, Henry Colburn and Co., London 1821.

DISCORSI PUBBLICI DEL DOTT. CESARE VERGINE SINDACO DI TUGLIE DAL 1951 AL 1969

DISCORSI PUBBLICI DEL DOTT. CESARE VERGINE SINDACO DI TUGLIE DAL 1951 AL 1969

Lo scorso mese di dicembre è stato pubblicato il libro sui ”Discorsi pubblici del dott. Cesare Vergine sindaco di Tuglie dal 1951 al 1969”, a cura di Lucio Causo (Del Campo Editore – Messina-Bari-Roma) stampato col contributo della famiglia.

Il curatore avvisa Cesare Vergine - 27.4.1965che quelli pubblicati non sono tutti i discorsi pronunciati dal sindaco Vergine in piazza e in altri luoghi pubblici di Tuglie, ma solo quelli conservati dalla famiglia e messi a disposizione del Centro Studi intitolato all’illustre medico. Sono i discorsi scritti di proprio
pugno su foglietti di carta e pagine di quaderno, trovati nel carteggio privato del dottore Vergine (circa venti faldoni di archivio).

I discorsi sono preceduti da una scheda biografica.

Cesare Vergine, classe 1896, medico chirurgo, ha partecipato in qualità di ufficiale medico sia nella prima guerra mondiale che nella seconda e nella guerra d’Africa del 1935/1936.

Nel 1957 raggiunge il grado di tenente colonnello medico della riserva.

A Tuglie nel 1933 vince il concorso di ufficiale sanitario e nel 1951 vince le elezioni amministrative, così nelle votazioni successive; è sindaco della bella cittadina fino al 1969, quando si dimette per gravi motivi di salute.
A Tuglie, giustamente, è considerato un “padre nobile”, un professionista importante, un politico illuminato, un amministratore coraggioso e intraprendente, un fondatore.

La splendida collinetta di Montegrappa, oggi zona residenziale, dove, oltre a numerose villette, si possono ammirare il Santuario a Maria SS. Del Grappa, la splendida piazza, il grande e moderno teatro, il busto del Vergine, opera dello scultore Marcello Gennari, è il frutto di una sua intuizione.

Al Monte Grappa, dove il Vergine aveva combattuto nella prima guerra mondiale, egli volle dedicare quella che si può considerare oggi una vera e propria cittadina. I suoi discorsi sono storia di Tuglie, ma rivelano anche l’uomo, con la sua passione civile e la sua fede.

 

L’AVVOCATO

L’AVVOCATO

Per Ezelindo era l’età dell’innocenza delle scuole elementari, contrassegnata dalle vacanze estive da trascorrere al mare non lontano da Racale, godendo il sole caldo e l’azzurrità dello Ionio.

   Ma quella dorata fanciullezza del figlio più piccolo di Sebastiano, un triste giorno venne offuscata da un’immensa nuvola nera che purtroppo durò per parecchio tempo.

   Il ragazzo si accingeva a dare gli esami di licenza elementare, ma la sua famiglia, che aveva fino a quel momento fatto mostra orgogliosa di ben sei figli maschi, fu presa dal panico di fronte all’abisso che stava per aprirsi davanti a tutti. La tragica data del 24 maggio 1915 era già sul quadrante della storia e segnò l’inizio della prima guerra mondiale, che per tre lunghi anni doveva sconvolgere il mondo.

   In pochi giorni, i fratelli maggiori di Ezelindo furono mobilitati dall’esercito e partirono per il fronte; il più grande di essi, Efisio, dopo appena due mesi, cadeva in combattimento colpito a morte sulle pendici del Monte San Michele. La casa era ormai vuota e la vecchia madre vi si aggirava dolente, confortata dalle altre due figlie e dal marito. E’ superfluo ricordare il calvario della Patria in armi, che, dopo tre anni di guerra, alla disfatta di Caporetto seguì la rivincita di Vittorio Veneto, e con gli alleati che si distinsero sugli altri fronti, fu la vittoria nel 1918.

   La guerra finì ed i fratelli partiti in guerra tornarono a casa sani e salvi, fatta eccezione di Efisio, del quale non si seppe più nulla.

   Fra i tanti problemi del dopo guerra, Ezelindo, che per la mobilitazione dei cinque fratelli era rimasto solo col padre, senza aver potuto proseguire negli studi superiori, inesistenti nel paese, sentì subito il disagio della sua posizione di studente.

   Aveva raggiunto l’età di 15 anni ed era ancora fermo alla licenza elementare. Per frequentare le scuole superiori doveva andare fuori. Ma dove? A Gallipoli, Galatina o Lecce? I suoi genitori non  erano molto propensi a lasciarlo andare fuori di casa perché erano ancora traumatizzati per il lungo sofferto distacco dai figli partiti in guerra.

   Poi le cose cambiarono; la Dea fortuna gli fu propizia ed Ezelindo poté sciogliere il nodo gordiano nel quale era rimasto intrappolato il suo avvenire.

   Una sua sorella, già fidanzata con un Sottufficiale della Regia Marina, dopo qualche tempo convolò a nozze e si trasferì a Taranto col marito. Una  speranza si accese nel suo cuore. Taranto non era molto lontana dal suo paese natio ed egli avrebbe potuto studiare in quella città, ospite dei suoi congiunti. Dapprima il padre si era mostrato contrariato, ma solo perché per la prima volta il figlio più piccolo si allontanava dalla casa paterna, poi cedette di fronte all’entusiasmo del figlio. La madre, invece, era felice perché spesso ripeteva che era stanca di vedere Ezelindo leggere tanti libri sempre da solo. Anche gli sposi, quando furono informati del progetto, furono contenti di ospitarlo nella loro casa e dopo qualche settimana era già sistemato nella sua stanzetta a Taranto. Ezelindo giunse in città verso la fine del 1918 ed il suo destino volle che vi rimanesse, sia pure con alterne vicende, per tutto il resto della sua vita.

   Intanto, fin da quando era giunto a Taranto, era stato consigliato di iscriversi alle Scuole Tecniche. Gli avevano detto che dopo i tre corsi inferiori e superando gli altri tre superiori, avrebbe ottenuto un diploma, che gli avrebbe consentito di aspirare subito ad un’ottima sistemazione. Ansioso com’era di riprendere gli studi comunque, negli anni 1919 e 1920 frequentò il primo ed il secondo corso delle Scuole Tecniche. Chiuso il 2° anno scolastico Ezelindo se ne tornò al paese per rituffarsi nelle sospirate vacanze al mare. Ma questa volta non era tranquillo, come lo era stato dopo il primo anno. Era diventato inquieto, turbato, ma solo per motivi scolastici che riguardavano il suo avvenire. Non si sentiva, cioè, soddisfatto degli studi prescelti. Suo padre aveva sempre parlato con i suoi amici e con un certo orgoglio, che avrebbe fatto del figlio un professore in lettere. Lo stesso Ezelindo era portato più per gli studi classici che per quelli che aveva frettolosamente intrapresi. Pertanto era insoddisfatto per il tipo di studi compiuti, che sentiva non congeniali, fino a quando non decise di dire a sé stesso ed a suo padre (che approvò la sua decisione): “ Basta con le scuole tecniche. Non ritornerò più nel prossimo anno a Taranto per frequentare il 3° corso. Farò anche salti mortali, ma intendo ad ogni costo fare subito il passaggio alle scuole ginnasiali”. Ma come doveva risolvere dignitosamente il caso?

   Aveva già 18 anni, e frequentare la 3^ ginnasiale all’età di 19 anni era piuttosto scoraggiante. Gli effetti della stasi subita in occasione della guerra si facevano ora sentire. Si sentì così travagliato che si pose una domanda: “… potrei, a costo di sacrifici, presentarmi nel giugno dell’anno prossimo, da privatista, agli esami di licenza ginnasiale?…”.

   Certo era pretendere un po’ troppo… anche se pensava che se gli fosse andata bene avrebbe guadagnato ben tre anni, quelli perduti appunto durante la guerra 1915-18. Ma d’altra parte, come avrebbe potuto fare per svolgere durante un solo anno i programmi di ben 5 anni di latino e 2 di greco, oltre tutte le altre materie generali? Di questa sua utopia volle parlare con l’unico professore di latino che allora viveva laggiù, nel suo paese. Era un sacerdote, ed era veramente un dotto. Dopo alcuni colloqui avuti con lui, ebbe la sentenza: tutto sarebbe dipeso da lui, dalla sua volontà e dalla sua tenacia. Ezelindo rimase soddisfatto, ma s’intende era molto preoccupato. Il sacerdote aggiunse che per il greco, per la quale materia egli non poteva prepararlo, ne avrebbe parlato ad un suo collega, di un vicino paese, e le difficoltà sarebbero state egualmente superate.

   Essendosi trovati d’accordo su tutto, anche con il professore di greco, la preparazione e lo studio intensivo ebbero inizio dopo pochi giorni, ed è superfluo dire che il giovane trascorse molte notti sveglio, alle prese con le traduzioni dei testi classici. Finalmente, dopo lunghi mesi di studio e di sacrifici, giunse il giorno della grande prova, quello degli esami, che Ezelindo sostenne nel Liceo-Ginnasio di Galatina, e che superò in piena forma. Alla fine i suoi sforzi ed il suo impegno per lo studio furono premiati: conseguì in ottobre la licenza ginnasiale. Era soddisfatto, anzi orgoglioso perché non era stato facile dedicarsi, come aveva fatto, ad una preparazione che indubbiamente presentava notevoli difficoltà. Era felice. Nello spazio di un anno era giunto alle soglie del Liceo Classico, che cominciò a frequentare, l’anno successivo, per conseguire quella licenza liceale che gli avrebbe aperto le porte dell’Università per ottenere titoli professionali più ambiziosi. Purtroppo, il corso dei suoi studi continuava ad essere pieno di difficoltà.

   Dopo avere frequentato il 1° liceo ed essere stato promosso al secondo, fu chiamato alle armi per adempiere al servizio militare di leva. Ricevuta la cartolina precetto, dovette chiudere i suoi sogni nel cassetto e partire in Sicilia, per raggiungere la lontana città di Palermo ove aveva sede il 6° Reggimento di fanteria al quale era stato assegnato. Ezelindo iniziò il servizio militare in fureria, ma dopo pochi giorni qualcuno informò l’aiutante maggiore del reggimento che era piuttosto istruito e che poteva essere meglio utilizzato negli uffici del comando. Fu, quindi, chiamato dal maggiore e poi traslocato ai piani superiori della palazzina presso il comando di reggimento. Dopo qualche mese ottenne la promozione a caporale per meriti speciali ed ebbe tanti riguardi dal maggiore e dagli ufficiali superiori. Così Ezelindo trascorse il noioso periodo del servizio militare in Sicilia, salvo qualche breve licenza per tornare al paese e per tuffarsi nel  mare azzurro dello Ionio, tra gli scogli di Torre Suda.

   Alla fine arrivò il sospirato congedo. Si chiudeva così per Ezelindo la sua vita militare che aveva avuto momenti importanti ed indimenticabili.  Lasciato il reggimento ritornò al suo paese d’origine, perché la sorella col marito si erano nel frattempo trasferiti da Taranto a Roma. Pertanto era naturale che si dovesse trovare nuovamente di fronte ad ostacoli non lievi da superare per reinserirsi nella vita civile e risolvere tutti i problemi relativi al suo avvenire. Stava ormai per raggiungere l’età di 25 anni e naturalmente la normale frequenza dei rimanenti due anni di liceo non si confaceva alla sua età. E poi era ansioso di prendere al più presto i vari contatti con la vita vera e propria, con tutti i suoi problemi e le sue responsabilità. Ma dove andare? Non certo a Galatina o a Lecce ove non aveva né parenti né amici. Decise quindi per Taranto, dove aveva vissuto per due anni ed aveva delle amicizie di una certa importanza. Superò gradualmente ogni difficoltà e la Dea bendata gli fu ancora una volta benigna.

   In occasione della venuta a Gallipoli di Achille Starace, il destino volle che Ezelindo conoscesse una persona del suo seguito, che finchè visse godette in Taranto di una grande popolarità: l’avv. Angelo Ponzio, meglio conosciuto col nome di Lillino Ponzio. Trascorsero in quella cittadina, Gallipoli, stesa sul mare come Taranto, un’intera giornata insieme, pranzando al Miramare, e fu così che si conobbero a fondo. Egli volle sapere tutto sul conto del giovane, le sue aspirazioni, il suo avvenire. Gli rispose che era tornato dal servizio militare e che desiderava trasferirsi a Taranto per completare i suoi studi liceali e quindi iscriversi all’Università di Bari in giurisprudenza. 

   L’avvocato, stette un po’ pensieroso poi gli disse: “Ti sarebbe molto utile cominciare fin d’ora a frequentare uno studio legale a Taranto. Il resto verrebbe da sé…”. Aggiunse che era molto
amico di un importante  avvocato di Taranto, di cui non gli fece il nome. Però, gli disse che doveva raggiungerlo in quella città al più presto per poter risolvere insieme il suo problema. Si lasciarono con l’impegno di rivedersi la domenica successiva alla stessa ora al Cin Cin Bar. Ritornato a casa, Ezelindo raccontò tutto ai genitori, che rimasero molto contenti. Quindi si preparò per trasferirsi a Taranto e dopo qualche giorno si ritrovò seduto al Cin Cin Bar in compagnia dell’avv. Ponzio, il quale gli comunicò che era molto amico dell’avv. Agilulfo Caramia, penalista di chiara fama e principe del foro tarantino. Quella stessa sera doveva incontrarsi con lui, per esporgli il suo caso. Lo avrebbe anche pregato di ospitarlo nel suo studio legale, che gli indicò, essendo vicinissimo al Bar. Ezelindo lo ringraziò per tutto quello che stava facendo per lui e si dettero appuntamento per il tardo pomeriggio del giorno successivo, allo stesso posto.

    Ezelindo fu puntualissimo, e dopo qualche minuto vide venire verso di lui l’avv. Ponzio col viso disteso ed espressivo come se dovesse dargli una buona notizia. E così fu. Battendogli la mano sulla spalla gli disse: “Caro Causo, c’è l’abbiamo fatta! L’avvocato ci attende questa sera sul tardi al suo studio”. Il giovane, a quella notizia, rimase incredulo, confuso, frastornato: non capiva più niente. Ringraziò l’amico affettuosamente e lo abbracciò forte con gli occhi pieni di lacrime per la gioia. La sera si presentarono insieme allo studio del famoso avvocato e dopo i preliminari e un po’ di conversazione su vari argomenti, Lillino Ponzio chiese all’amico Agilulfo che cosa aveva deciso circa la preghiera che gli aveva fatto la sera prima per il giovane amico. L’avv. Caramia aveva avuto agio di conoscere meglio Ezelindo, che gli aveva fatto certamente una buona impressione, perché, salutandolo e mettendogli una mano sulla spalla gli disse: “Va bene. E allora ti aspetto domani mattina, alle 8 e mezzo”. Ezelindo lo ringraziò calorosamente, come pure ringraziò con affetto il buon Lillino per il prezioso aiuto che gli aveva dato.

   Il giorno dopo il giovane si presentò puntuale allo studio e d’allora ebbe inizio un nuovo capitolo della sua vita, il più importante, perché da quello studio, ove era entrato ancora smarrito studente liceale, ne uscì dopo circa sette anni già esperto professionista.

   Era felice perché si trovava in un vero studio di avvocato e si prodigava con tutte le sue forze per adempiere alle mansioni di collaborazione affidategli dal suo Patrocinatore e per portare a compimento i suoi studi. L’avvocato Caramia fu veramente generoso nel consentirgli, lavorando nel suo studio, di prepararsi prima per conseguire la licenza liceale e poi per ottenere la laurea in giurisprudenza all’Università di Bari, ove in quell’epoca insegnava diritto penale il prof. De Marsico, che gli dettò la tesi di laurea. Il suo sogno era divenuto realtà.

   Ezelindo iniziò ad esercitare l’attività legale con una buona esperienza acquisita durante i sette anni trascorsi nello studio dell’avv. Caramia, per cui si sentiva pronto e ben preparato, fin dai primi processi dallo stesso discussi. Dopo qualche anno decise di aprire uno studio legale tutto suo, ma prima di fare questo passo egli sentì il dovere di parlarne col suo Maestro, il quale gli disse affettuosamente: “Puoi farlo benissimo, benché mi dispiaccia, perché hai già le ali per volare da solo. Però… attenzione. Nella nostra professione si entra in punta di piedi, e non al suono della marcia trionfale dell’Aida!…” Lo abbracciò come un figlio e d’allora ognuno seguì la propria strada.

   Agilulfo Caramia, per il suo valore, passava come un trionfatore. Per il giovane rimaneva sempre l’Avvocato. Nelle aule del Tribunale o della Corte d’Assise di Taranto e delle altre città d’Italia continuava a fare sfoggio della sua eloquenza e della sua bravura; ovunque egli andasse si faceva ammirare per la sensibilità umana e per i clamorosi successi che immancabilmente conseguiva in ogni causa.

   Anche l’avv. Causo cercava di aprirsi nello splendido schieramento di avvocati un piccolo varco per farsi conoscere, per conquistare a piccoli passi quella notorietà senza la quale si è destinati a rimanere agli ultimi posti della classe. E fu proprio allora che accadde un avvenimento per la sua carriera professionale.

   Nel vicino Comune di Sava era avvenuto un grave delitto. Una moglie infedele, invaghitasi di un altro uomo, si accordò con lui per togliere di mezzo il marito uccidendolo. E la esecuzione fu organizzata in modo tale da far pensare ad un delitto perfetto. All’Arma dei Carabinieri, infatti, subito informata, parlarono di aggressione subita ad opera di ignoti a scopo di rapina. Naturalmente nessuno volle crederci. Fu proprio in quella causa, che si celebrò a Taranto nell’aula magna della Corte d’Assise, affollatissima, che l’avv. Causo ebbe l’onore di parlare insieme con l’avv. Caramia: Causo come difensore dell’amante, Caramia come difensore della moglie. Nonostante gli sforzi compiuti, l’avv. Caramia da par suo, e l’avv. Causo facendo appello a tutte le sue possibilità oratorie, i due imputati non furono creduti e furono entrambi condannati. Ma il Maestro, durante quella sua meravigliosa arringa, ebbe a parlare (e fu l’unica volta) dell’avv. Causo, delle sue qualità professionali, ricordando i tempi in cui era stato umile discepolo nel suo studio. E fu allora che disse: “Ho ascoltato poco fa attentamente il mio giovane discepolo, e l’ho ammirato, per cui ho l’orgoglio di dire che veramente il discepolo ha superato il suo Maestro”. Era quella l’espressione dell’affetto che egli nutriva per l’avv. Causo. Egli era sempre il Grande Avvocato, che tutti sovrastava, e tale rimase sino alla fine della sua attività professionale.

   L’avv. Ezelindo Causo ha lavorato per 48 anni dall’inizio della sua carriera professionale ed è stato sempre sulla breccia, dando il meglio di sé stesso nell’adempimento dei suoi doveri e riportando anche qualche successo che lo compensarono delle amarezze di cui è intessuta la vita. Ha lavorato sempre, d’estate e d’inverno, e quindi fino ad una certa età non ha conosciuto né ferie né svaghi né vacanze. Solo quando i suoi famigliari lo scossero da quell’immutabile ritmo di lavoro e di vita, Ezelindo cominciò a sentire che il riposo, sia pure per pochi giorni all’anno, era indispensabile. E fu così che accettò l’affettuosa ospitalità estiva che i suoi parenti lontani erano lieti di offrirgli nella loro villetta di fronte al mare. Così si spiegano anche i suoi scritti, tristi e lieti, polemici e poetici, pubblicati all’epoca tutti sul “Corriere del Giorno” di Taranto che offriva loro cortese ospitalità.

   Il 3 luglio del 1982, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e dei Procuratori Legali di Taranto, nella cornice del Nuovo Palazzo di Giustizia – Aula di Udienza di Corte d’Assise intitolata ad Emilio Alessandrini – volle ripetere la cordiale e convinta cerimonia delle “Toghe d’Oro” per festeggiare sei illustri avvocati del Foro di Taranto, che avevano compiuto cinquanta anni di iscrizione all’Albo Professionale. Per cui il Consiglio, nel costante intento di esternare la stima e l’affetto dell’Ordine nei confronti dei Colleghi che vantavano una notevole anzianità agli Albi, ed esercitavano la professione con dignità ed onore, conferì la Medaglia d’Oro ai Colleghi : avv. Giuseppe Acquaviva – avv. Ezelindo Causo – avv. Gaspare di Mase – avv. Bernardino Pasanisi – avv. Angelo Tocci – avv. Giuseppe Volpe, i quali per lungo tempo avevano confermato il loro attaccamento alla Toga, ed avevano profuso, nell’esercizio della professione, notevoli valori di cultura, di dignità e di probità.

   Dopo pochi mesi, “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 13 novembre 1982, comunicò che un grave lutto aveva colpito il Foro della città di Taranto con la scomparsa dell’avv. Ezelindo Causo, 78 anni, laureato in Giurisprudenza all’Università di Bari nel 1932, penalista, oratore erudito e fecondo pubblicista, di recente insignito della Toga d’Oro per aver superato il mezzo secolo di attività forense e per aver dato lustro alla sua professione svolta sempre con alto senso di umanità e di giustizia, doti nelle quali è stato “maestro” di più di una generazione di giovani avvocati.

TOMMASO FIORE

TOMMASO FIORE

TOMMASO FIORE ACCANITO DIFENSORE DEI FORMICONI DI PUGLIA

Vi è un estratto da “Contributi” del mese di marzo 1986 con la nota di Gino Pisanò sulla raccolta di 13 lettere inedite scambiate dal prof. Luigi Corvaglia e Tommaso Fiore negli anni 1930/1947, per concessione di Maria Corvaglia con la quale Pisanò ha curato la ristampa delle opere su G.C. Vanini ed altri filosofi, pubblicata da Congedo Editore di Galatina nel 1990.

Nella prefazione alle 13 lettere, si può rilevare l’energica volontà di lotta del Fiore riscontrata nel suo “Popolo di Formiche”, edito dai Laterza nel 1951 e premiato a Viareggio dalla giuria organizzata da Remigio Paone, da Billi e Riva e dalla pianista negra Hanzel Scott.

Tommaso Fiore è nato ad Altamura nel 1884, amico spirituale di Gaetano Salvemini e di Guido Dorso, ha studiato con grande passione i problemi del Mezzogiorno con il consenso di Augusto Monti e di Pietro Gobetti. Nel 1925 furono pubblicate alcune sue lettere su “Rivoluzione Liberale”, ottenendo anche la lode di Rosselli, di Sansone e di Sciascia.

Francesco Gabrieli, orientalista di fama internazionale, autore di “Uomini e volti di Puglia”, edito da Congedo, in una sua nota giornalistica del 1978 ha scritto che il Fiore ha avuto per Giovanni Giolitti e per Arrigo Serpieri una forte predilezione, nutrita di grandi riserve.

La rassegna Pugliese ha dedicato a Tommaso Fiore il quaderno di Michele Palmieri; è stato ricordato da Bobbio, Pepe, Abbate, Caiati, Nenni, La Malfa, Calogero e Capitini; da Benedetto Croce ha riscosso l’esaltazione delle sue confidenze.

Il Fiore con il volume edito dai Laterza “La poesia di Virgilio” ha presentato il vate mantovano come poeta degli umili e dei vinti e non più esclusivamente come artefice della romanità, ha espletato studi su Saint Beuve, Tommaso Moro e Russell; Aldo Vallone gli ha attribuito con le sue conferenze degli anni 1970 l’estrema speranza nella redenzione futura del Mezzogiorno, dei suoi agricoltori oppressi dalle imposte e dalla concorrenza straniera.

Natura, arte e tradizioni pugliesi trovano la sua magistrale narrazione maturata negli anni di insegnamento nella provincia di Bari e nel capoluogo, dove fu per breve tempo provveditore agli studi.

Nel periodo del confino e della carcerazione maturò il suo apostolato civile per chiarire soprattutto ai giovani il valore della democrazia, essendo nel partito d’azione, destinato a dissolversi rapidamente.

Il 25 luglio 1943, le forze dell’ordine uccisero uno dei suoi figli, Graziano, preso da panico ingiustificato, ed il padre abbracciò le sue spoglie appena uscito dal carcere dove era stato rinchiuso insieme a Calogero, De Ruggero, Teofilato ed altri esponenti liberali o socialisti.

Nel Congresso di Bari, tenutosi nel Teatro Piccinni il 28 e 29 febbraio 1944, essendo segretario l’ex magistrato Michele Cifarelli del partito repubblicano, Tommaso Fiore ebbe preminente autorità insieme a Carlo Sforza rientrato dagli Stati Uniti, mitigò l’opposizione di Churchill al C.N.L. e la preferenza del premier britannico per la monarchia italiana, fu uno dei protagonisti della soluzione per la luogotenenza e del passaggio al governo Bonomi, una volta liberata Roma.

Sicché Tommaso Fiore, il letterato, l’economista, il collaboratore della Voce e del Mondo, come apprendiamo da suo figlio Vittore, spentosi nel febbraio del 1999, ha dimostrato di valere anche come protagonista politico, di essere un pugliese democratico che dirige la sua filosofia rivolta verso il Mezzogiorno e l’Europa.

SALOMONE

SALOMONE

SALOMONE FU UN GRANDE RE, DOPO LA SUA MORTE GLI EBREI SI SPARSERO PEREGRINI PER IL MONDO

Salomone, figlio di Davide e di Betsabea, dopo la congiura del fratello Adonia, divenne re di Israele per designazione del padre che lo esortò “ad essere forte e mostrarsi uomo”.

A Salomone si attribuiscono molte opere bibliche, fra le quali: Il Cantico dei Cantici, L’Ecclesiaste, Proverbi, Sapienza, Salmi; nel Medioevo era considerato un Mago.

Nel Corano egli appare come un precursore di Maometto.

Si ricorda la saggezza di Salomone per il caso delle due madri che contendevano la maternità di un bambino: quando egli riconobbe la vera genitrice che implorava il re, con grida di angoscia, di consegnare il bambino all’altra donna, invece di passarlo a fil di spada.

La Bibbia rileva che “… la sapienza di Dio era il Lui”.

La regione della Palestina era abitata da Cananei e da Filistei, conquistata poi dagli Ebrei che elessero Saul nella 2^ metà del secolo XI loro Re. A Saul succedette Davide, genero di Saul, il quale tolse ai Filistei la città di Gerusalemme che accolse l’Arca dell’Alleanza con le leggi date da Dio a Mosè sul Monte Sinai, durante il viaggio per la terra promessa da Dio ad Abramo, dopo il rientro dalla cattività d’Egitto del 1320 a.C.

Il terzo ed ultimo Re di Israele è stato il grande Salomone nel 970 a.C., il quale volle dare al suo popolo potenza e floridezza; concluse patti di amicizia con gli Egiziani, con i Fenici, con gli Arabi e con gli Etiopi, spesso imparentandosi con essi. Costruì il primo Tempio di Gerusalemme con architetti fenici, inaugurato dalla regina di Saba, di eccezionale bellezza. La regina recò al re spezie ed oro, concepì un figlio da Salomone per affinare la dinastia etiopica.

Il re di Israele ottenne dal re di Tiro, Iram di Fenicia, che alcuni artigiani addestrassero gli operai ebrei ad estrarre il rame ed affinarlo specie dalle località di Timma, a tagliare la pietra ed il legname, favorì l’importazione di olio d’oliva ed incrementò numerosi contratti commerciali con popoli amici.

Gli scavi archeologici hanno scoperto palazzi imponenti con harem di 700 mogli e 300 concubine, pur se non graditi ai tradizionalisti ebrei, memori di Saul che dormiva per terra..

Il regno di Salomone si estendeva dall’Eufrate alla penisola del Sinai. Dopo la morte di Salomone che aveva governato per 40 anni, gli Ebrei divisero in due il suo regno, si ebbero così il regno di Israele al nord, e quello di Giudea al sud, a causa della rivolta provocata dalla mano d’opera obbligatoria. Le capitali furono Samaria al Nord e Gerusalemme al Sud.

La città di Gerusalemme fu attaccata nel 587 a.C. da Nabucodonosor, questore babilonese, che portò tutti gli ebrei come schiavi sulle rive dell’Eufrate, fino alla liberazione di Ciro che nel 536 a.C. permise loro di ritornare nei propri territori.

(Giovanni Papini nella Storia di Cristo scrive che la vecchia Giudea, profanata dagli usurpatori Idumei, contaminata da infiltrazioni elleniste ed angariata dalle soldatesche romane, era senza re e senza unità).

Il Tempio di Gerusalemme demolito dai babilonesi e riedificato sarà definitivamente distrutto nel 700 a.C. dai romani, preceduti dai persiani e dai siriani  nella sottomissione degli Ebrei, ai quali non rimaneva che unirsi nel dolore dinanzi al Muro di Erode, definito Muro del Pianto.

Quel Muro fece gioire gli Israeliani solo nel giugno del 1967, quando con l’intervento delle grandi potenze mondiali, in occasione delle attribuzioni politiche dei territori in questione e delle controversie diplomatiche sorte successivamente, nel 1948 finalmente fu riconosciuto lo Stato di Israele.

Nella Bibbia si enumerano tre Templi:

  • quello di Salomone del X secolo a.C. che poté durare fino al VI secolo a.C.;

  • Il Tempio più modesto di Zorobabele che rimase in piedi dal VI al I secolo a. C.;

  • Il Tempio costruito da Erode il Grande descritto da Giuseppe Flavio nel I secolo d.C. con gli atri per le donne, gli israeliti e i sacerdoti, iniziato verso il XX secolo a.C. ed edificato nel periodo di dieci anni su una piattaforma di 500 m. di lunghezza e 300 m. di larghezza. In quel Tempio Gesù fu presentato da Maria e da Giuseppe a Dio quando il bambino aveva 40 giorni. Gesù, quando aveva 12 anni, fu ritrovato nel Tempio dai genitori mentre interrogava i sacerdoti della Legge; fu lì che Gesù cacciò i mercanti per liberare quel luogo sacro da ogni scempio; nel Tempio avvenne l’annunzio dell’Angelo a Zaccaria e lo squarcio del velo alla morte di Cristo. Nel Tempio San Paolo fu arrestato dai soldati romani.

 

CALLIMACO ZAMBIANCHI

CALLIMACO ZAMBIANCHI

IL COMANDANTE CALLIMACO ZAMBIANCHI

GARIBALDINO DEL 1860

G.M. Trevaljan, storico di chiara fama, nella sua opera su “Garibaldi e la Repubblica Romana”, edita nel 1909, e in quella dell’anno successivo, su “Garibaldi e i Mille”, non poteva non far parola del maggiore dei finanzieri Callimaco Zambianchi, ma considerandolo uno spavaldo, un ribaldo, un assassino “tout court”, dimostra, senza ombra di attenuanti, che egli non ha approfondito lo studio dell’uomo e le sue gesta nel clima del tempo e nell’ambiante, tacciandolo di “sprovveduto”, e quanto fosse sprovveduto il Trevaljan  nei confronti dello Zambianchi lo dimostra il più provveduto e documentato storico della Finanza, il Generale Giuliano Oliva, nel bel volume pubblicato negli anni Sessanta che ha per titolo “Quel maledetto Zambianchi”.

Il Generale Oliva, in base a documenti d’archivio e a corrispondenze, ha potuto restituire alla verità fisica e morale la figura dello Zambianchi, proponendolo come l’ultimo carbonaro, o meglio un carbonaro che rimase ancorato alla mentalità dei mangiapreti che era stata alimentata da quella giacobina a cui aveva attinto lungamente in Francia e dall’odio accumulato per tanti anni per le violenze subite da lui e dalla sua famiglia nelle Romagne.

“Egli – scrive il Generale Oliva – fu certamente uomo di parte, violento, rissoso, obnubilato dall’odio, ma innegabilmente un patriota deciso e generoso”. E questo non fu riconosciuto dal Trevaljan. Bisogna, perciò, essere assai grati al Generale Oliva non solo per il puntuale impegno, ma per l’amore, per la probità con cui, accostandosi alla figura dello Zambianchi, ha saputo darci una figura vera ed umana, perché sulla bilancia il Generale Oliva ha posto le luci in contrappunto con le ombre, perché si fa storia quando si resta sereni e quindi equi nel giudizio.

Non facile e avventurosa fu la vita dello Zambianchi che godette della fiducia di Garibaldi il quale affidò a lui il compito della “Diversione” che aveva lo scopo di invadere lo Stato Pontificio.

E’ con documenti importanti e tutti di prima mano e, con essi, anche fotografie dagli originali (come la lettera con cui Garibaldi dà lettura istruzioni allo Zambianchi, scrivendo da Talamone l’8 maggio 1860, per la “Diversione”; la lettera del Ministro delle Armi, Giuseppe Avezzana, perché il Battaglione Finanzieri si porti a Porta San Pancrazio agli ordini di Garibaldi; la dichiarazione del Triunvirato a favore dei Finanzieri mobilitati, del 20 aprile 1849; la dichiarazione della Commissione di guerra della Repubblica Romana in favore dei Finanzieri mobilitati; e una lettera di Zambianchi al Ministro delle Finanze in favore di un impiegato di dogana che abbia la piena illuminazione per poter lavorare) che viene riabilitata la figura dello Zambianchi nei confronti di altri storici, oltre al Trevaljan che,  senza alcun approfondimento dei tempi e dell’uomo, emisero giudizi totalmente negativi, di Callimaco Zambianchi cospiratore, patriota, mazziniano, garibaldino, Comandante il Battagione dei Finanzieri mobilitati durante la Repubblica Romana 1849; Comandante la colonna dei Mille che tentò la “Diversione” nel 1860 verso lo Stato Pontificio; esule in Francia, Inghilterra, Argentina e morto a Buenos Aires il 13 febbraio 1862 avendo poco prima ricevuto la nomina a Colonnello nell’esercito Argentino.

Del patriottismo di Callimaco Zambianchi è una prova nel fatto che dall’esilio accorse per ben due volte in Italia, trascurando i suoi interessi e quelli della disgraziata famiglia specialmente nel 1859. Scrive il Generale Oliva : “Egli aveva trovato ormai in Argentina  una sistemazione e poteva anche non tornare in Italia sol che lo avesse voluto. Non si arricchì e morì povero come dimostrano gli appelli disperati della moglie”.

Non mancarono, dopo morto, feroci e violente critiche, ma – conclude il Generale Oliva, cui dobbiamo una così generosa e meritata opera giustizia di giustizia resa nobilmente alla memoria – “ogni rivoluzione ha i suoi eccessi ed ogni rivoluzione ha i suoi capri espiatori”.

ALDO GARZIA

ALDO GARZIA

 Il prof. Aldo Garzia da Tuglie: luminare della ricerca farmaceutica

Aldo Garzia, nacque a Tuglie il 21 marzo 1921, nella casa del nonno materno, al Largo Fiera. Da piccolo si trasferì a Saronno (Va), dove i genitori, Raffaele e Consiglia Imperiale, esercitavano il commercio dei nostri vini. In quella fiorente cittadina lombarda frequentò le scuole elementari e le scuole tecniche con ottimi risultati. Nel luglio del 1939 conseguì la maturità scientifica presso il Liceo “Vittorio Veneto” di Milano ed il 2 novembre si trasferì in quella città per iscriversi alla Regia Università e per  frequentare il corso di laurea in chimica industriale. Sin da studente, si dedicò alla ricerca chimica e farmaceutica con grande passione ed impegno.

Scoppiata la guerra, il 19 febbraio del 1941 dovette presentarsi al Distretto Militare di Varese per il servizio di leva. Risultato rivedibile, fu lasciato in congedo illimitato fino alla  chiamata della classe 1922. Ma, il mese successivo, presentò domanda di rinuncia al beneficio suddetto provocando la chiamata alle armi e la destinazione ai reparti mobilitati.

Assegnato al 3° Reggimento Artiglieria di C.A. Cremona, in pochi mesi raggiunse il grado di sergente e verso i primi di settembre fu trasferito al Reggimento Chimico di Roma per frequentare il Corso Allievi Ufficiali di Complemento.

Il 15 novembre 1941 fu nominato Ufficiale di Complemento ed assegnato alla V Compagnia Chimica di C.A. che operava in Croazia. Comandante di plotone, era addetto al servizio di scorta di autocolonne dal 17 marzo al 4 novembre 1942.

Col grado di Sottotenente di Complemento, fu trasferito alla IV Compagnia Chimica di C.A. e destinato ai reparti che operavano in Albania.  La mattina dell’8 gennaio 1943 s’imbarcò a Bari ed il giorno successivo sbarcò a Valona per prendere il comando del plotone nebbiogeni addetto al porto di Durazzo.

L’8 settembre 1943 si trovava con i suoi uomini a Sassobianco (Albania) ed il 13 settembre ricevette l’ordine di spostarsi, con gli altri reparti della zona, verso la Bulgaria. Ma il 30 settembre, nei pressi di Ocrida, furono catturati e disarmati dai tedeschi per essere condotti a Bitoli (ex Monastir). Ormai erano prigionieri di guerra!

Il 10 ottobre, sotto scorta, vennero trasportati in Germania ed internati in diversi campi di concentramento. Il Sottotenente Aldo Garzia, più volte invitato e sollecitato, rifiutò sempre di aderire alla repubblica fascista di Salò e di combattere a fianco dell’esercito tedesco; proprio per questa sua resistenza alle pressioni fasciste fu rinchiuso con altri militari nei campi di concentramento tedeschi fino al 18 gennaio 1945. In quelle prigioni infernali gli furono affidati lavori ed incarichi umili, che svolse con grande senso di responsabilità, moralità e dignità civile.

Fu internato a Kaiserstrinbruck (XVII A) dal 19 al 28 ottobre 1943; a Deblin Irena (Offlag.77) dal 5 novembre 1943 al 27 marzo 1944, dove conobbe il Prof. Giuseppe Lazzati (divenuto poi rettore dell’Università Cattolica ed uno dei padri della Costituzione italiana); a Oberlangen (Offlag.6) dal 1° aprile al 13 giugno 1944; a Bonn/Rhein (Stalag VI G) dal 15 giugno al 3 agosto 1944.

In seguito a nuovi rifiuti di adesione alla repubblica di Salò ed al lavoro per l’esercito tedesco, fu trasferito a Koln (A.96) dal 3 agosto al 14 settembre 1944 e poi a Wiehzendorf (Offlag.83) dal 28 settembre 1944 al 17 gennaio 1945. Il 18 gennaio dello stesso anno venne obbligato a lavorare ad Amburgo fino al giorno della liberazione, che avvenne il 4 maggio 1945. Da quel giorno e fino al 30 luglio, fu trattenuto presso una caserma di militari  inglesi e finalmente il 5 agosto 1945 giunse in Italia con una tradotta di rimpatrianti che si fermò a Verona. Da quella città partì per Milano con un’autocolonna di soldati americani ed il 6 ottobre 1945 si presentò al Distretto Militare per essere collocato in congedo (6 dicembre 1945).

La terribile esperienza nei campi di concentramento nazisti lo segnò profondamente e gli fece maturare una grandissima fede in Dio che lo accompagnò per tutta la vita.

Rientrato in famiglia, riprese gli studi universitari ed il 30 gennaio 1948 si laureò in chimica industriale e quindi si dedicò all’insegnamento, ma la sua vera passione era la ricerca chimica e farmaceutica.

Dopo qualche tempo passò all’Istituto della Fondazione Giuliana Ronzoni, nella Città degli Studi di Milano, dove conobbe la Signora Adriana che sposò nel 1952.

Il 12 ottobre 1953 venne nominato Tenente di Fanteria della forza in congedo con anzianità 1° gennaio 1946.

Nel 1957, la Presidenza dell’Istituto Chemioterapico Italiano di San Grato (Milano) lo chiamò per dirigere il centro di ricerche nello stabilimento di Lodi.

Il 13 marzo 1961 ebbe la nomina a Capitano di Fanteria in congedo con anzianità 1° gennaio 1958.

Nel 1962, essendo molto impegnato nella direzione del centro di ricerche di Lodi, decise di trasferirsi definitivamente con la famiglia in quella città.

L’esperienza al Chemioterapico finì nel 1975 ed iniziò l’attività di ricerca negli Stati Uniti d’America dove, lavorando e producendo con grande impegno e soddisfazione, ottenne prestigiosi riconoscimenti scientifici ed accademici.

Tornato dall’America, fu nominato docente di chimica industriale all’Università di Cagliari. Per raggiungere quella sede universitaria, dovette fare il pendolare, da Milano a Cagliari e viceversa, fino all’età di settant’anni.

Il 13 gennaio 1964, il Distretto Militare di Como l’autorizzò a fregiarsi del distintivo di partecipazione alla campagna di guerra 1940/1943 e del distintivo della guerra di liberazione per gli anni 1944/1945. Inoltre, gli venne conferita la Croce al merito di guerra per la partecipazione alle operazioni belliche e per l’internamento in Germania dopo l’8 settembre 1943.

Il 10 settembre 1969, in occasione del Congresso della Società di Farmacologia, tenutosi a Milano, alcuni quotidiani nazionali (fra cui “La Notte” e la “La Gazzetta del Mezzogiorno”) pubblicarono numerosi articoli sul C 3, il nuovo farmaco scoperto da ricercatori italiani per combattere l’infarto. Le ricerche per il nuovo prodotto farmaceutico furono eseguite, nel corso di due anni, dall’Istituto di Farmacologia dell’Università di Modena, con un’équipe guidata dal prof. William Ferrari, in stretta collaborazione con l’Istituto Chemioterapico Italiano di Lodi, il cui centro di ricerche era diretto da Aldo Garzia. In quei giorni la stampa nazionale pubblicò alcune interessanti  interviste sul C 3. Il Dr. Garzia, in particolare, fece presente che gli esperimenti eseguiti nei laboratori del complesso farmaceutico di Lodi, avevano dato risultati superiori ad ogni aspettativa. La somministrazione del C 3 (sigla data dai farmacologi alla pillola antinfarto) preveniva le complicazioni della malattia, evitava l’insorgenza di turbe del ritmo cardiaco, riduceva i bruschi abbassamenti della pressione arteriosa ed eliminava la sintomatologia dolosa che portava allo choc. A Milano, Lodi, Gavardo e Modena gli addetti lavoravano attivamente per preparare e sperimentare un farmaco che, nel campo specifico, rappresentava un autentico “boom”. All’Ospedale di Gavardo il C 3 era stato usato in quindici casi con esito favorevole. Il prof. Aldo Bertelli, dell’Istituto di Farmacologia dell’Università di Milano, docente di Tossicologia all’Università di Messina, dichiarò che col C 3 era stata aperta una nuova via nella lotta contro le conseguenze delle lesioni cardiache. Il prof. Fausto Rovelli, primo cardiologo del centro De Gasperis dell’ospedale di Niguarda,  rilasciò la seguente dichiarazione: “…Il farmaco C 3 potrà certamente risultare un ritrovato prezioso  per perfezionare alcuni procedimenti di cura per prevenire o bloccare l’infarto…conoscevo già da tempo le ricerche condotte in proposito dall’Istituto Chemioterapico Italiano sotto la guida del dott. Aldo Garzia…”. Il prof. Franco Fontanini, primario all’ospedale “La memoria” di Gavardo, dichiarò che “…gli esperimenti portati avanti sulle persone avevano dato esiti positivi: quindici casi di ammalati curati col C 3 che si sono rimessi ed ora stanno bene…”.

Nel mese di giugno del 1971, in occasione del “Convegno Serramazzoni”, fu consegnata al Dr. Aldo Garzia una targa speciale con sopra incise le seguenti parole: “Al padre del C 3”.

A Roma, per le ricerche effettuate nel laboratorio di Lodi e gli ottimi risultati scientifici raggiunti nel campo farmaceutico,  il Dr. Garzia ricevette l’ambito “Premio Marc’Aurelio”.

Il Presidente dell’Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia, il 4 novembre 1975, nel corso di un’importante manifestazione, consegnò al Capitano Dr. Aldo Garzia un Attestato di Benemerenza per il profondo e costante attaccamento dimostrato in lunghi anni di appartenenza all’U.N.U.C.I.

Nel 1976, mentre era preso dai tanti impegni di studio e di ricerca, il Dr. Garzia fu nominato direttore scientifico della Tecnofarmaci S.p.A. – Società per lo sviluppo della ricerca farmaceutica – con sede a Pomezia (Roma). Ricoprì il nuovo prestigioso incarico fino al 1978.

A questo punto cominciò un lungo periodo di riposo fatto d’impegni e di attenzioni alle realtà sociali del nostro paese e del mondo. Per prima cosa diede notevole impulso all’attività della Commissione per la Biblioteca di Lodi; donò i diritti per il brevetto di un farmaco antivirale al Movimento per la lotta contro la fame nel mondo; ricoprì la carica di presidente di quel Movimento e del gruppo anziani di padre Giulio Granata; resse le sorti dell’Azione Cattolica Parrocchiale e fu anche vicepresidente cittadino dell’Associazione Partigiani d’Italia e presidente onorario provinciale.

Oltre alla stima professionale per i numerosi principi attivi brevettati in Italia e all’estero, era benvoluto da tutti per la sua gentilezza, i suoi modi garbati, la disponibilità verso i colleghi, amici e parenti. Aveva sempre una buona parola per tutti, proprio come un padre. Soprattutto aveva un grande rispetto per la vita e per il prossimo.

Era considerato un personaggio completo: conosciuto ed apprezzato non solo come ricercatore, ma anche come uomo.

Quando gli era possibile, Aldo Garzia trascorreva volentieri nel suo paese natio, a Tuglie, che ha sempre amato, qualche breve periodo di vacanze, passando lunghe ore a chiacchierare con parenti ed amici e facendo lunghe passeggiate per le strade cittadine.

Il 27 dicembre 1968, il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, in considerazione di particolari benemerenze, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri Mariano Rumor, conferì al Dr. Aldo Garzia l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, con facoltà di fregiarsi delle insegne stabilite per tale classe.

Il 28 marzo 1974 la “The New York Academy of Sciences” conferì al Dr. Garzia, in riconoscimento dei suoi studi e delle sue ricerche e dei numerosi brevetti registrati nel campo chimico e farmaceutico, la certificazione di membro attivo della prestigiosa Accademia americana fondata nel 1817.

Il 22 maggio 1977 la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Milano, in occasione della manifestazione per il “Premio della Fedeltà al Lavoro e del Progresso Economico”, conferì al Dr. Garzia, il Diploma di Medaglia d’oro per 17 anni di ininterrotta attività quale “Dirigente d’Azienda” presso l’Istituto Chemioterapico Italiano con sede a Milano.

In occasione della Giornata per l’Assegnazione del Fanfullino della Riconoscenza e le medaglie di benemerenza civica,  il 19 gennaio 1990, al Teatro di Lodi, davanti al pubblico che gremiva la sala, il Sindaco del Comune di Lodi consegnò al Prof. Aldo Garzia la medaglia d’oro di benemerenza civica con la seguente motivazione: “Uomo di grande cultura è attivamente impegnato nell’ambito della scienza e della vita sociale. Ha fondato e diretto il Centro di Ricerche dell’I.C.I. e collaborato con laboratori di ricerca in Europa e negli Stati Uniti, ottenendo importanti riconoscimenti in Italia e all’estero. E’ membro della New York Academy of Sciences e dal 1982 insegna Farmacologia all’Università di Cagliari. Animato da notevoli rigore e forza morali ha subito durante la guerra, a causa della sua ferma opposizione alla collaborazione con l’esercito tedesco, persecuzioni e deportazioni. Ha contribuito allo sviluppo sociale e culturale della comunità lodigiana, lavorando all’interno di alcune strutture istituzionali e come membro dei consigli direttivi dell’ANPI e del Movimento Contro la Fame nel Mondo”.

La sera del 21 giugno 1990, in occasione della conferenza tenuta al Teatro di Lodi dal premio Nobel 1986 per la medicina Rita Levi Montalcini, il prof. Aldo Garzia presentò al numeroso pubblico l’illustre relatrice, sottolineando le condizioni da “Robinson Crusoe” nelle quali la professoressa aveva lavorato nei primi anni della sua carriera, quando ad ostacolarla nelle ricerche c’erano la guerra e le persecuzioni contro gli ebrei. La celebre studiosa si associò alla FILDIS di Lodi che con l’Amministrazione comunale e la Commissione per la Biblioteca di quella città aveva organizzato l’importante manifestazione. Nella cronaca di Lodi di sabato 23 giugno 1990, “Il cittadino” riportò un ampio resoconto sulla conferenza tenuta dal premio Nobel Rita Levi Montalcini e sulla relazione di presentazione del prof. Garzia.

Il 15 giugno 1992, il Ministro della Difesa, Virginio Rognoni, conferì al 1° Capitano Dr. Aldo Garzia, a titolo onorifico, il grado di Tenente Colonnello della Forza in Congedo.

Il 19 aprile 1997, Aldo Garzia si spense a Lodi a seguito di un aneurisma all’aorta addominale. Un precedente intervento chirurgico urgente non aveva potuto fare nulla.

I funerali si svolsero il 21 aprile 1997 alla Chiesa di Santa Maria Ausiliatrice fino al Cimitero Maggiore. Erano presenti, oltre a parenti ed amici, le autorità della città di Lodi e della Provincia, diversi collaboratori ed esponenti del mondo scientifico. Accompagnavano il feretro, con i propri stendardi, numerosi rappresentanti delle Associazioni di cui Aldo Garzia aveva fatto parte e di cui era stato presidente. Erano presenti la moglie, Signora Adriana, i dieci figli: Raffaella, Giovanna, Francesca, Cristina, Laura, Stefano, Davide, Daniele, Alessandra e Andrea, la nipote Federica, la nuora, i generi, le sorelle, i nipoti e tutti i parenti, alcuni venuti da Tuglie, il paese natio che non cessò mai di amare.

Pubblicazioni del Prof. Dott. Aldo Garzia

  • “Contribution à l’étude de la lipase du Ricinus”. II° Congrès International de Biochimie – Paris, 21-27 Juillet 1952. Istituto di Chimica Organica, Università di Milano-Istituto scientifico di Chimica e Biochimica “G. Ronzani”, Milano, Italia;

  • “Relazione dell’Istituto Scientifico di Chimica e Biochimica Giuliana Ronzoni di Milano” al XIV Congresso Internazionale di Zurigo sul tema: “fur reine und angewandte Chemie”, dal 21 al 27 luglio 1955;

  • “Relazione al “3éme Congrès International de Biochimie di Bruxelles”, 1 – 6 agosto 1955 – sul tema: “De l’action des hydrocarbures polyeyeliques sur l’activité des peroxydases”;

  • “Cromatografia su carta dell’acido 1 – Ascorbico e di composti correlati”, Istituto Chemioterapico Italiano – Milano – Centro ricerche – su “Rivista Chimica” n. 7 di luglio 1960;

  • “Studies on the Pharmacologie Activities of some Derivatives of 2 – (Chloro-ethyl)- 2,3 – dihydro – 1 – oxo – (benz – 1 – 3 – oxazine)”. Drug Research – Arzneimittel – Forschung – Editio Cantor – Germany – 1963;

  • “Caratteristiche farmacologiche generali di un nuovo potente antiflogistico, il cloridrato dalla 2 – (beta-cloroetil) – 2,3 – diidro – 4 – cheto – 6 – amino – (benzo- 1,3 – ossazina) (ICI 350)”. Minerva Medica, Vol.54, n.90 (10 novembre 1963) Edizioni Minerva Medica;

  • “Attività gangliostimolante del cloruro di trimetil – 1 (2,4 – disulfonamide – 5 – cloro) Fenilammonio. Una sostanza ottenuta per clorometilazione della clorotiazide”, Istituto di Farmacologia dell’Università di Cagliari, 26 novembre 1963;

  • “A new antiphloigistic drug: 2 – (chloroethyl) – 2,3 – dihydro – 4 – oxo – 6 – amino – (benz – 1,3 – oxazine). HC1 (A350), sulla rivista “Rhumatologie”, n.1 – Janvier 1965 – pp. 41-42.

  • “Atti del 1° Simposio Nazionale sul C 3 – Modena: 12-13 giugno 1971”. Rivista di Farmacologia e Terapia Suppl. al Vol.II. Fascicolo 4-1971. Editori W. Ferrari e Sternieri;

  • “Azione dell’acido 3,4,5 – trimetossi – benzoil – amino aproico sull’aggregazione piastrinica e sull’attivazione del plasminogeno da streptokinasi”, Centro Ricerche dell’Istituto Chemioterapico Italiano di Lodi. Direttore: Dr. A. Garzia, da “Quaderni della Coagulazione, 1973, n.14, Periodici Baldacci di Informazione Medica. (precedentemente pubblicato in lingua da “Elseiver Publishing Company”, Amsterdam, il 31 marzo 1971);

  • “Relazione sulla terapia della psoriasi con scheda prodotto antipsoriasi” – Istituto di Farmacologia dell’Università di Cagliari;

United States Patent Office

Brevetti registrati negli Stati Uniti d’America dal Prof. Dr. Aldo Garzia per prodotti attivi e processi chimici e farmacologi dallo stesso scoperti nel corso delle sue ricerche:

United States Patent Office: 3,119,818,  Patented  Jan.   28, 1964;

Idem                     : 3,131,182, Patented  Apr.   28, 1964;

Idem                     : 3,282,935, Patented  Nov .   1, 1966;

Idem                     : 3,383,279, Patented  May  14, 1968;

Idem                     : 3,432,550, Patented  Mar.  11, 1969;

Idem                     : 3,697,563, Patented  Oct.   10, 1972;

Idem                     : 3,726,913, Patented  Apr.   10, 1973;

Idem                     : 3,769,334, Patented  Oct.   30, 1973;

Idem                     : 3,789,070,  Patented  Jan.   29, 1974;

Idem                     : 3,803,222, Patented  Apr.     9, 1974,

Idem                     : 3,852,466, Patented  Dec.     3, 1974;

Idem                     : 3,857,949, Patented  Dec.   31, 1974;

Idem                     : 3,882,105, Patented  May     6, 1975;

Idem                     : 3,968,233, Patented  July      6, 1976;

Idem                     : 3,969,520, Patented  July    13, 1976;

Idem                     : 3,991,190, Patented  Nov.     9, 1976;

Idem                     : 4,076,815, Patented  Feb.    28, 1978;

Idem                     : 4,086,345, Patented  Apr.    25, 1978;

Idem                     : 4,115,570, Patented  Sep.   19, 1978;

Idem                     : 4,273,931, Patented  Jun.    16, 1981;

United States Department of Commerce/Patent and Trademark Office/Washington, D.C. 20231. Patent number 06/441,294 Date: 11/12/82.

ROYAUME DE BELGIQUE – Ministere des Affaires Economiques – Brevet d’invention – N°  684.810 – Bruxelles, 30 settembre 1966.

PATENT OFFICE LONDON – Patent Specification – N° 1, 146,020 –  Complete Specification Published : 19 March, 1969. Pharmaceutical Tetracycline – Oxazine – Derivative – Compositions.                                                                                        

HRAND NAZARIANTZ

HRAND NAZARIANTZ

POETA ARMENO ESULE IN PUGLIA

Nel capoluogo pugliese sono state elevate strutture ecclesiastiche alla presenza di autorevoli personalità di rito orientale, della Chiesa Cristiana che si è resa autonoma sin dal IV secolo.

Non sono stati ricordati i grandi personaggi armeni che nella nostra Regione, la Puglia, hanno lasciato la loro impronta di solidarietà oltre che di cultura con il loro nucleo di esuli, facendo rilevare a noi tutti la loro poesia e la letteratura del loro popolo, nutrite di tradizioni e di solidarismi incancellabili.

PUGLIA”, il quotidiano di vita regionale, del 2 febbraio 1988, rammenta i “Profili, Ricordi e Storia” di frammenti poetici a firma di Don Pedro, il quale dà notizia che Domenico Cantatore, seguito da Michele De Giosa, Gino Baglivo, Mino Colonna, da P. A. Gallein e da Margit Von Szitanj, hanno eseguito“ritratti”, oltre agli scritti di Giuseppe Mastrolonardo, Pasquale Sorrenti e della sua consorte Mariella Angeloro, per Hrand Nazariantz.

Nazariantz, nato in Armenia nel 1886, ha creduto di cancellare tutte le sue malinconie occupandosi con affettuosa e fattiva solidarietà dei suoi compatrioti confluiti in Puglia, particolarmente sin dal 1947, anno in cui Alcide De Gasperi dispose il censimento degli stranieri in Italia, in collaborazione con le nostre autorità, dopo la cessazione delle ostilità.

Nazariantz, dopo la sua morte, avvenuta nel 1962, è stato accolto in un loculo del Cimitero di Bari. La sua visione poetica di grande poeta armeno, imbevuta di versi nobili e solenni ha offerto splendore alla letteratura del nostro continente con teorie secolari che si sono susseguite parallelamente a quelle bizantine.

Nazariantz nel 1902 ha studiato a Londra per completare le scuole superiori, poi è passato a Parigi per iscriversi alla Sorbona. Incomincia a scrivere le sue prime poesie e raccoglie i suoi versi ne I sogni crocifissi. Nel 1907 si trasferisce in Turchia per lavorare ed impegnarsi nell’attività pubblicistica e letteraria. A partire dal 1911 corrisponde epistolarmente con Filippo Tommaso Marinetti, Gian Pietro Lucini, Libero Altomare e si dedica alla traduzione di poesie italiane. Nel 1913 è costretto a lasciare la sua terra a causa del tracollo finanziario della politica armena. Nella primavera dello stesso anno, si sposa con la ballerina di Casamassima, Maddalena De Cosmis, e si trasferisce in Italia, recandosi a Bari in qualità di esule.

Pasquale Sorrenti ha scritto sul poeta armeno un libro, con le Edizioni Levante, perché rimanesse un suo ricordo e venisse riproposto ai vecchi letterati locali, alle nostre popolazioni, a chi ha avuto il privilegio di conoscerlo.

Hrand Nazariantz era nato nel 1886 nel distretto asiatico di Costantinopoli. Scrittore, poeta e giornalista armeno, nel 1913 fu costretto a lasciare la sua terra a causa della politica anti-armena che caratterizzò gli ultimi anni dell’Impero Ottomano. Si trasferì esule in Puglia dove fu naturalizzato italiano. Nella primavera dello stesso anno si recò a Bari ed in alcune città della sua provincia che lui amò molto. Intellettuale  di grande spessore fu molto attivo nella cultura italiana ed europea. Morì nel 1962 in condizioni di quasi indigenza. Attualmente riposa nella Necropoli di Bari in un loculo quasi anonimo che reca soltanto l’indicazione del nome le date di nascita e di morte e la definizione di “Poeta”.