CARNEVALE SALENTINO

CARNEVALE SALENTINO

Carnevale a gallipoli

Sfilata di Carnevale lungo il Corso principale di Gallipoli

Il Carnevale nel Salento ha radici molto antiche. Fino agli anni ’50 del secolo scorso, il Carnevale era una festa popolare che aveva la sua anima nelle focareddhe, ossia i falò che venivano accesi nelle piazze e nei crocicchi delle strade cittadine. Le numerose cataste di foglie e rami di albero d’ulivo si trasformavano in breve tempo in lingue di fuoco che il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, ardevano fino all’imbrunire. Erano i fuochi (focare) di Sant’Antonio, protettore del fuoco e degli animali domestici, che ardevano in suo onore per tutta la sera, fino a diventare brace. Intorno ai falò si raccoglievano in cerchio giovani tamburellisti che suonavano e cantavano tarantelle, invitando le coppie ad esibirsi in una fantastica danza propiziatoria carica di antichi significati e colori. Alla fine della serata, alcune donne, con il coppu di argilla annerito dall’uso, e la paletta di ferro, raccoglievano la brace per scaldarsi le mani e una volta diventata cenere la spargevano sul terreno che coltivavano per propiziarsi una buona annata agraria. La raccolta della cenere all’inizio della baldoria carnascialesca era un rito che segnava la fine del Carnevale e l’inizio della Quaresima: il mercoledì delle Ceneri. La sacralità della cenere dei falò derivava dal fatto che il fuoco fosse un tributo di ringraziamento a Sant’Antonio. Nelle città di mare, si utilizzava la cenere dei falò per lanciarla verso le onde in tempesta per propiziarsi il rientro dei propri congiunti impegnati a pescare al largo nei malaugurati giorni di inatteso fortunale. Il fuoco è sempre stato usato per significare gioia e allegria e per celebrare avvenimenti felici. In alcune occasioni si sparavano fuochi d’artificio e in altre si accendevano falò e candele. La tradizione delle focareddhe col passare del tempo andò scemando anche se ancora oggi in alcuni paesi del basso Salento lu focu te Sant’Antonio ( focara di antica memoria) continua ad essere acceso con un unico grande falò. 

L’Italia stava cambiando: la crisi agricola, seguita da quella economica, dei primi anni del ‘900 aveva provocato, specialmente nelle regioni del Mezzogiorno, l’emigrazione di massa, le lotte sindacali, gli scioperi, l’interventismo, la prima guerra mondiale, i disagi del dopoguerra, la mancata consegna della terra ai contadini, le lotte sindacali, il biennio rosso, l’avvento del fascismo, la seconda guerra mondiale, la resistenza e la liberazione con l’arrivo degli americani che cambiarono ogni cosa. Nel Salento, come in tutta l’Italia, il Carnevale da subito diventa occasione di gioia, di festa, di movimento: la gente indossa maschere e costumi di ogni tipo e si riversa nelle strade e nelle piazze per divertirsi. Le abitazioni, le sale e i teatri, vengono aperti a feste che si concludono danzando la”pizzica pizzica”, eseguita con ritmi vivaci, ma non travolgenti. La festa carnascialesca impazza! Nei fine settimana, il giovedì grasso, la domenica e l’ultimo martedì di carnevale, le presenze di maschere e di folla aumentano sempre di più. Tra maschere e persone che hanno voglia di divertirsi il movimento è tanto. A complicare la situazione si aggiunge il lancio dei cacai, candallini e curianduli, con i bambini che sgattaiolano tra le gambe degli adulti per raccoglierli. A fine serata, il basolato delle strade, dopo la sfilata delle maschere, si trasforma in un unico tappeto di coriandoli. I cacai sono confetti rivestiti di zucchero colorato di due tipi: quelli originali, con lo zucchero che custodisce un cuore di mandorla; quelli “da getto”, con il nucleo centrale di gesso che costano di meno. I candallini sono confetti sottili di forma cilindrica allungata di colore chiaro con una sottile anima di cannella. Poi le “mendule ricce” di forma cilindrica arricciata con la mandorla rivestita di glassa di zucchero bianca. Sono bianchissime e dolcissime. Negli anni ’50 e ’60 erano di moda per il Carnevale i veglioni in maschera organizzati nei cinema e nei teatri, con ampia pista di ballo, palco per l’orchestra e tavolini per le consumazioni. Allo stesso modo erano organizzati i “festini” nelle abitazioni. Ma anche questi eventi col tempo cessarono. 

La domenica della Pentolaccia si festeggiava a metà Quaresima. Era una festa che si svolgeva in famiglia o in sale e veglioni. La pentolaccia era una pentola di terracotta (pignata) appesa al soffitto e riempita di confetti, dolciumi e coriandoli. La sua larga bocca era chiusa con una pezza. Quando era il tuo turno ti bendavano gli occhi con un fazzoletto. Poi qualcuno ti dava un grosso bastone e ti faceva girare e rigirare su te stesso per farti dimenticare dove si trovava la pentolaccia. Dovevi cercare di romperla con il bastone. Perciò continuavi ad agitare il bastone nell’aria finché non la rompevi. E allora ti liberavi della benda e correvi a prendere i regali e i dolci della vittoria. Di solito il rito della pentolaccia era preceduto e seguito da balli come la “pizzica pizzica” e la quadriglia; per quest’ultima il corteo di coppie danzava seguendo le figure suggerite dai comandi del maestro di ballo in francese maccheronico. Un grande divertimento! La Pentolaccia era un’occasione in più per fare festa, perché dopo arrivava la Quaresima, che era rappresentata da una Vecchia seduta col fuso in mano – la Caremma – il cui fantoccio appariva appeso nei crocicchi delle strade e poi veniva bruciato in un falò a fine Carnevale. Essa rappresentava il simbolo della penitenza dopo i fasti carnascialeschi.

Ai primi anni della seconda metà del XX secolo (anni’50) quella diffusa voglia di divertimento chiassoso e spensierato che si manifestava nel festeggiare il Carnevale, lasciò il posto ad altre manifestazioni di divertimento sempre più numerose, diversificate e popolari. Erano gli anni della televisione, di “Lascia o raddoppia” e “Il musichiere”, la gente usciva di casa per incontrarsi nei bar, nei pub e nelle pizzerie. Erano gli anni della pubblicità, con “Carosello”, delle grandi vetrine di elettrodomestici, del cinema, dei teatri e degli spettacoli all’aperto. La gente voleva divertirsi e di farlo in pubblico. Le strade impoverite di maschere a Carnevale cominciarono a suggerire qualcosa di nuovo e di diverso. Si pensò subito alle sfilate in maschera lungo il corso della città, con la partecipazione di coppie e gruppi mascherati, accompagnati da tanta musica, fiori e coriandoli, ed arricchiti dai primi carri allegorici e grotteschi in cartapesta, sulla scia dei carnevali di Viareggio e di Putignano. 

Nel 1954, a Gallipoli, città di antiche tradizioni, grazie all’impegno assunto dai dirigenti della locale Associazione Turistica (Pro Loco), dal sindaco pro-tempore e da un gruppo di imprenditori, artisti e artigiani del luogo, nacque il Carnevale di Gallipoli che col tempo riuscì a conquistare tutti i Salentini, e non solo, che ogni anno accorrevano numerosi a Gallipoli, con le famiglie e gli amici, per festeggiare le maschere e i carri allegorici della “città bella”. Le sfilate dei carri di cartapesta continuarono fino al 1973, anno in cui si chiuse il primo ciclo per crisi sopravvenute, e dopo la ripresa del 1979 andarono avanti fino ai giorni nostri, salvo le interruzioni del 2012 per crisi politica e del 2021 per pandemia. In quegli anni memorabili sul Corso Roma di Gallipoli sfilarono carri favolosi sempre più elaborati e fantastici, e tanti gruppi mascherati sempre più ricercati e originali, che cantavano e lanciavano coriandoli verso il pubblico plaudente. La gioia e il divertimento della gente si notava dappertutto. Il Carnevale di Gallipoli con le sue tradizioni, le sue feste mascherate, i suoi carri allegorici, i suoi maestri della cartapesta, ormai apparteneva alla storia. 

Come già detto, i dolci della tradizione carnascialesca salentina sono le “chiacchiere”, che hanno la priorità assoluta, seguite dalle “castagnole”. Le prime sono leggere e allegre. Il dolce più facile da preparare e il più birbante, come dicevano le nonne. Le chiacchiere devono presentare un bel colore dorato e devono essere friabili, fino al punto di sciogliersi in bocca. A volte tendono a biscottarsi, a secondo del tempo che fa. Le “castagnole” hanno diversi punti di contatto con le “chiacchiere”, sia per ingredienti, che per lavorazione. Sono di forma rotonda, come palline lisce colorate, con una doratura uniforme. I veri e propri dolci tradizionali del carnevale sono i “cacai”, i “candallini” e le “mendule ricce”, di cui abbiamo parlato prima. La pietanza dell’ultimo giorno di carnevale è costituita dalla pasta con il sugo nonché dalle polpette, fritte in olio o cotte al sugo o in entrambi i modi. Maccheroni e polpette sono il classico piatto del nostro Carnevale.

L’origine del nome “coriandoli”, dato ai “confetti”, “cacai” e “mandorle ricce” è dovuta ai vari contatti che la gente delle nostre città marinare aveva avuto con gli arabi ed altre popolazioni del mare Mediterraneo, che avrebbero introdotto nella nostra terra quei dolcetti già da alcuni secoli. Così pure per i dischetti di carta colorata che di solito si gettano sulla folla in occasione del Carnevale e di altre feste.

Il Carnevale gallipolino è unico nel nostro Salento per tradizioni, arte e cultura. Le sfilate dei maxi carri di cartapesta con gruppi mascherati sono state fatte e si continuano a fare solo a Gallipoli. Negli altri paesi in cui si parla di feste di Carnevale, si sono fatti e si continuano a fare piccoli Carnevali con piccoli carri di maschere, improvvisati o presi in prestito da fuori. 

L’esigenza di dare continuità, stabilità e forza al Carnevale gallipolino è passata attraverso il tentativo di coinvolgimento dei Comuni vicini per costituire un consorzio che promuovesse e gestisse la manifestazione. Il tentativo però ebbe scarsi risultati. Nella primavera del 1997 l’Associazione che organizzava il Carnevale, d’intesa con l’amministrazione comunale, aderì alla Federazione Europea delle Città del Carnevale, con sede ad Amsterdam, ma l’iniziativa non produsse i risultati sperati e si esaurì dopo qualche anno. Nel 2004 fu tentata la costituzione della “Fondazione Carnevale Città di Gallipoli” che fu accolta tiepidamente dall’opinione pubblica. Ma per la mancanza di risorse finanziarie, contrasti interni all’organizzazione e dubbi sulla buona riuscita della Fondazione, l’esperienza non andò oltre la costituzione del direttivo. Seguirono poi nel 2008 l’abbinamento della Festa del Carnevale gallipolino alla Lotteria Nazionale e nel 2020 il coinvolgimento nella rete dei Carnevali di quello gallipolino con la partecipazione al “Summer Festival di Putignano” e la campagna di promozione intitolata “La Puglia che non ti aspetti” che esaltava gli eventi della tradizione carnevalesca regionale.

Febbraio 2024 – Lucio Causo

GIROLAMO COMI, BARONE SENZA SCETTRO DI LUCUGNANO

GIROLAMO COMI, BARONE SENZA SCETTRO DI LUCUGNANO

Girolamocomi giovane(Girolamo Comi giovane – dalla rete)

Iniziava un nuovo anno: il 1948. La guerra era finita da poco. Tante le macerie morali e materiali, c’era tutto da rifare. Un uomo, solo come un fantasma, si aggirava fra i suoi libri, fra le stanze silenziose di un palazzo dove abitò da fanciullo, un palazzo antico, inutilmente austero fra le case di un piccolo borgo del Salento. Nella memoria: i trascorsi di Losanna, Parigi, Claudel, Valéry, quelli romani di Villa Emiliani, quelli fiorentini del “Frontespizio”! Il ritorno definitivo aveva il sapore di un rimpatrio, di un confino, di un esilio! Il suo pensiero era quello di sodalizi lontani, tenuti in vita da èsili rapporti epistolari. L’uomo: Girolamo Comi (1890-1968), barone senza scettro (poi senza terre), ma poeta. L’Italia doveva rinascere. Il Sud scontava la sua morte vivendo. Ricominciare, questa l’idea. Da dove? … da Lucugnano, nel Salento, il 3 gennaio 1948. Il poeta “folle” chiamò a raccolta i migliori uomini di Puglia. Pochi amici, in vero, risposero all’appello. Tra i primi, il medico di Taranto Michele Pierri; Oreste Macrì, magliese, residente a Parma, preside in una scuola media; Vincenzo Ciardo da Gagliano, pittore e Maestro a Napoli. E altri risposero all’appello, Luciano Anceschi, Luigi Corvaglia, Maria Corti, Rosario Assunto, Ferruccio Ferrazzi, Giuseppe Macrì. E poi, Caproni, Betocchi, Giacinto Spagnoletti, Vittorio Pagano, Tommaso Santoro, Nicola De Donno, Donato Valli, Iole, Marcella, Rina. Bisognava definire il sodalizio che fu chiamato: “Accademia Salentina”, la proposta di Comi fu accolta e definita, anche se già nel Settecento v’era stato un cenacolo omonimo. Poco incoraggiante per l’aggettivo che sembrava localizzarla in terra di frontiera. L’Accademia non aveva nulla di accademico, né di salentino. Era cosmopolitica, pluralistica, impegnata, aperta all’universale, laica e cattolica, platonica e aristotelica, romana, milanese, siciliana, umbra, fiorentina,parmense, italiana, europea. Occorreva un organo di stampa. E Girolamo Comi, sempre lui, ideò una rivista: “L’Albero”. Perché? Nell’albero, un ulivo, c’era il simbolo dell’anagrafe salentina. Non tutti forse compresero, ma accettarono il simbolo dell’Albero d’ulivo. Occorrevano risorse finanziarie ed ecco l’oleificio sociale di Lucugnano. Tutto a sue spese. Rapido il fallimento con tutto ciò che ne seguì. Era l’alba di un nuovo anno: 1954. Girolamo Comi non aveva più finanze. Gli amici accademici erano lontani, Roma, Milano, Firenze. L’Italia non era più quella del 1948. Si parlava di Ricostruzione, prime prove dell’Unione Europea. Il neorealismo, la prassi, le Università facevano aggio sull’utopia, sul “volontariato”, sulle solitudini! Si sciolse l’Accademia, rimase “L’Albero”. A “concimarlo” rimase solo Comi coadiuvato dagli amici più idealisti e congeniali come Michele Pierri, Oreste Macrì. Ormai era un’altra storia, sortita dalla prima: veste editoriale più raffinata, non più organo dell’Accademia, ma giornale letterario che accoglieva i contributi dei maggiori esponenti del Novecento italiano, Ungaretti compreso. E’ passato tanto tempo da quel lontano maggio 1949 in cui vide la luce il primo fascicolo de “L’Albero” di Girolamo Comi! L’ultimo fascicolo contrassegnato dal numero XXXIX portava la data del dicembre 1985, ma fu pubblicato nel 1987. L’intera collezione della rivista comprendeva 39 fascicoli belli corposi. Dopo la morte del poeta “L’Albero” cambierà ancora pelle. Ma questa era tutta un’altra storia! 

Bibliografia essenziale: Gino Pisanò,“L’Albero”, A Lucugnano l’utopia di Girolamo Comi barone senza scettro, Il Salento in rivista, Lecce, 2002; Donato Valli, “L’Albero”, Il cuore dell’Accademia Salentina, Il Salento in rivista, Lecce, 2002; Cfr., Cronaca della fondazione, in “L’Albero”, (1949) p.7; C. Betocchi, Viaggio meridionale, in “Il vetturale di Cosenza”, Lecce, Quaderni del Critone, 1959; L. Anceschi, Per una società europea della cultura, in “L’Albero”, antologia 1949-1954; Girolamo Comi, l’albero, in Antologia, Atti del Convegno internazionale 18-20 ottobre 2001, Lecce, Milella, 2002; “L’Albero”, Accademia Salentina, fondata da Girolamo Comi, n.1, 1949.

12 novembre 2023 – Lucio Causo

MARIE LOUISE ANTENUCCI – PROMOTRICE DI CULTURA A VILLERUPT (FRANCIA)

MARIE LOUISE ANTENUCCI – PROMOTRICE DI CULTURA A VILLERUPT (FRANCIA)

Marie Louise Antenucci, professoressa di storia e geografia e scrittrice di chiara fama, nata a Villerupt (Francia) nel 1965 da genitori italiani, da decenni promuove la cultura nella sua città. Il padre Giulio Antenucci era abruzzese, la madre Gabriella Tarantino è nata a Tuglie (Lecce) in Puglia. Erano emigrati in Lorena con le proprie famiglie dopo il 1940 ed avevano cominciato a lavorare nelle officine siderurgiche di Micheville. Nel 1964 Giulio e Gabriella si sposarono e riuscirono a comprare una casa, a formare una famiglia e ad integrarsi nella comunità italo-francese di quella regione a nord della Francia. 

Marie Louise Antenucci 001

Marie Louise, lo scorso mese di giugno, è stata eletta presidente dell’associazione culturale “Le Pole de l’Image”, che da anni promuove il Festival del film italiano” a Villerupt. Quest’anno il Festival ha potuto riprendere alla grande la sua 45^ edizione dopo la pandemia e le aperture sanitarie in corso. L’edizione del 44° anno era stata caratterizzata dal ritorno del pubblico nelle sale di presentazione dei film in programma: 7.523 scolari; 30.228 spettatori per ben 76 film proiettati, di cui 52 italiani inediti in Francia e 10 film premiati. La benevola accoglienza di pubblico e di critica hanno spinto “Le Pole de l’Image” a ripetere l’esperienza e a dilungare la durata della manifestazione. Oreste Sacchelli, dopo 24 anni di presidenza, ha lasciato a favore di Marie Louis Antenucci, eletta dal consiglio di amministrazione con voti unanimi. 

Il 45° Festival del film italiano, si svolgerà a Villerupt dal 28 ottobre al 13 novembre 2022; saranno presentate sei nuove sale di proiezione e si esibirà il cine-concerto dell’Orchestra Filarmonica Europea, composta di musicisti e studenti delle scuole e conservatori di tutta l’Europa, grazie all’inclusione di luoghi meravigliosi come quelli de L’Arche. 

45° Festival film italiano a Villerupt 001Il tema generale del Festival sarà “La femme à la caméra” con la presentazione di 70 film importanti che hanno dato una voce particolare alle donne e con l’omaggio a Lina Wertmuller, famosa regista italiana, morta di recente, e venuta a Villerupt nel 1980. 

Con “Esch 2022” vedranno la luce progetti e propositi su Alzette, in Lussemburgo, capitale europea della Cultura 2022, dove si svolgerà il concerto dell’Orchestra Filarmonica del Lussemburgo a L’Arche, a partire dal 29 ottobre. 

“Remix notre histoire” sarà l’argomento principale di “Esch 2022” dove si parlerà del territorio e della necessità di tornare indietro nella storia e nel passato industriale, culturale, sociale. 

La grossa novità di quest’anno sarà l’apparizione de “L’Arché” come luogo di diffusione dell’arte cinematografica, con tanti film in programma, e per il teatro con la presentazione de la pièce “Le ritals” di Bruno Putzulu, basato sul libro di Francois Cavanna, fissata per il 31 ottobre a L’Arche. 

E per finire è prevista una mostra di serigrafie dell’artista Sarah Teulet, formatasi all’università d’arti plastiche di Strasburgo. Ella aveva esposto alcune sue opere molto originali a Parigi nel 2011.

Ma il nuovo impegno di “Le Pole de l’Image” è la pubblicazione del libro su centinaia di oggetti diversi, vari e insoliti, che portano stampigliato il nome di Villerupt e che fanno parte della sua storia; oggetti che costituiscono una straordinaria collezione esposta nel 2019 da Nicolas Houillon, appassionato collezionista delle cose più strane e caratteristiche prodotte a Villerupt nel corso degli anni. Nel 2019 gli oggetti messi in mostra erano 250, mentre, quelli immortalati da Marie Louise Antenucci nel suo nuovo libro, sono 100. 

Festival du Cinema de Villerupt 001

Marie Louise, storica della città di Villerupt, ha riunito gli oggetti raccolti da Nicolas Houillon e ha scritto un pregevole libro di 160 pagine intitolato “Labels Villerupt, ces objets qui nous racontent Villerupt”, edito da “Paroles de Lorrains”, dove racconta con aneddoti e immagini degli oggetti prodotti nella città di Villerupt, la storia della “Piccola Italia” della Lorena, come la chiamavano gli italiani ai tempi dell’immigrazione. Una città che produceva tutto quello che serviva ai suoi abitanti e che metteva a loro disposizione tutti i servizi necessari. Oggi dove si possono trovare questi oggetti? Ormai non esistono più. L’oggetto del libro, a tutt’oggi, appartiene al passato, ma non può essere dimenticato perché rappresenta l’avvenire. 

 

Nuovo libro di Marie Louise Antenucci 001Il libro, scritto in modo piacevole, ricco di aneddoti, immagini e fotografie a colori, è disponibile mediante sottoscrizione e sarà messo in vendita da “Le Pole de l’Image” presso la libreria Idiesis in occasione della Giornata del Patrimonio. 

“Un’altra occasione per guardare il passato alla luce del presente”, scrive Marie Louise Antenucci. 

15 settembre 2022 – Lucio Causo

SANTU MAURU: STORIA DI UN’ANTICA ABBAZIA

SANTU MAURU: STORIA DI UN’ANTICA ABBAZIA

La storia dell’antica abbazia di Santu Mauru è uguale a quella di tutte le comunità basiliane fondate dai monaci fuggiti dall’Oriente per le persecuzioni degli imperatori di quelle lontane terre sempre in guerra tra loro.

Alcune antiche pergamene greche (17 in tutto, che vanno dal 1134 al 1331) parlano di donazioni di terre, di uomini e di cose, accadute nel territorio di quella antica abbazia che si estendeva per circa due miglia dalla loro sede, sebbene solo 35 tomolate fossero di terreno seminativo e il resto boscoso e pascolo.

 

Dall’abbazia di Santu Mauru dipendevano San Salvatore nel feudo di Sannicola, Santa Maria del Civo presso Taviano, Santa Maria della Alizza in Alezio, San Basilio in Gallipoli, Santa Anastasia in Matino, Santa Maria de Atoca in Rodogallo e Santa Maria di Reto in Presicce. Il suo latifondo comprendeva diversi appezzamenti ecclesiastici che si chiamavano Foresta di Sant’Agata, feudo di Coppe e di Curlo, e Feudo di San Mauro. Da questa importante badia uscirono uomini dotti che composero in lingua greca opere in prosa e in versi raccolte dal cardinale Bessarione e forse conservate nella Biblioteca Marciana di Venezia.

Un triste episodio riguardante un monaco di San Mauro, Antonio, avvenne nel 1348 in quella zona. Stava ritornando al monastero dopo avere sbrigato alcune faccende in Nardò quando fu assalito da alcune persone e da monaci benedettini di quella città per ordine del loro abate Bartolomeo. Tirato giù dal cavallo, venne denudato e picchiato a sangue. Quindi fu rimesso sul cavallo, al quale era stata mozzata la coda. Quelle persone cattive gli avevano messa in testa una corona di ortiche e così conciato fu fatto girare per le strade di Nardò.

Di quanto accaduto, l’abate di San Mauro, Ierodeo, informò il Papa Clemente VI in Avignone il quale ordinò al Vescovo di Ugento di istruire un processo contro i responsabili che, se colpevoli, dovevano essere scomunicati, isolati ed obbligati al risarcimento dei danni e delle spese. Non tutti gli storici confermano l’autenticità del fatto.

Nella chiesa di San Mauro attraverso gli affreschi dipinti da frati locali erano narrate le storie e le immagini della religione cristiana per istruire il popolo. Tutte le opere pittoriche, malgrado le distruzioni del tempo e dei vandali, sono state interpretate e schematizzate nella pubblicazione predisposta da un Seminario di Studio Internazionale dell’Università di Lecce il 29 febbraio 1984.

Intorno all’antica abbazia hanno aleggiato numerose leggende di tesori nascosti. Leggende di tesori nascosti dai monaci prima di abbandonare la badia al tempo delle scorrerie saracene. La più nota era  quella che parlava di un saccheggio compiuto in una notte di tregenda conosciuta e raccontata dagli anziani del paese che facevano il nome dei tre protagonisti che andarono a trovare l’acchiatura (il tesoro) sotto una pietra del pavimento della chiesa di San Mauro dopo aver fatto comunicare una capra dall’arciprete portato di nascosto con loro.

L’inganno del prete che diede alla capra una particola di ostia non consacrata scatenò la bufera che disperse i sacrileghi in zone lontanissime dalla chiesa da dove impiegarono otto giorni per tornare a casa. Grande era la fantasia popolare nell’immaginare favolose ricchezze nascoste nelle antiche chiese abbandonate.  

E questa storia fu chiamata l’acchiatura te Santu Mauru!

DIAVOLI, DEMONI E FOLLETTI NEL SALENTO DEL MISTERO

DIAVOLI, DEMONI E FOLLETTI NEL SALENTO DEL MISTERO

Nascosto dal sole estivo che illumina distese di sabbia infuocata e di mare azzurro, esiste un Salento che non te lo aspetti, un territorio fatto di magia e di mistero, dove dalle ombre della tradizione spuntano diavoli, folletti e spiritelli.

Se infatti vi trovaste in giro per le strade di Parabita, un bel paese vicino a Gallipoli, nell’entroterra, potreste scorgere addirittura il diavolo guardarvi ammiccare dalla facciata di Palazzo Arditi.

La leggenda infatti vuole che durante i lavori di costruzione, nel XVII secolo, la balconata cedesse continuamente e inspiegabilmente, fino a convincere l’esasperato capomastro di un sabotaggio da parte del diavolo. Così per ringraziare lo spirito maligno, il capocantiere decise di ritrarre il volto del demone sulla facciata, riuscendo finalmente ad ultimare la costruzione.

Non un solo spirito ma addirittura un’intera squadra di diavoli avrebbe invece edificato Palazzo De Lorenzi (o Palazzo D’Aquino) di Casarano, grosso centro agricolo salentino, e volti dei mefistofelici costruttori sarebbero ancora immortalati nelle mensole del lunghissimo balcone visibile ancora oggi.

C’è dell’altro: pare infatti che i demoni avessero intenzione di portare a compimento l’opera nel corso di una sola notte, ma non riuscendo nell’intento per ripicca lanciarono una maledizione contro l’edificio impedendone nei secoli successivi l’ultimazione definitiva.

Si tratta ovviamente di leggende popolari, utili a spiegare la presenza di fregi architettonici grotteschi, ma del tutto naturali, e incidenti di percorso nei lavori, così come una leggenda – anzi forse la leggenda per antonomasia –  è quella dello Scazzamurrieddhu (conosciuto a seconda della zona con il nome di Monaceddhu, Caracarulu, Lauru, e altri nomi ancora), una specie di folletto domestico che ama infestare le case giocando tiri mancini agli occupanti. L’unico modo per neutralizzarlo, secondo la tradizione popolare, è quello di rubargli il cappello, a cui lo spiritello ci tiene così tanto, da rivelare – pur di rientrane in possesso – il luogo dove tiene nascosta la sua pignatta di terracotta piena di tesori, la così detta acchiatura.

In conclusione, il Salento è un territorio della bellissima Puglia, pieno di storia ma anche di storie, e basta guardare sotto i mattoni secolari, all’ombra degli ulivi e tra le mura delle antiche masserie per scovare gli abitanti di un mondo fantastico pronto a sorprendervi.

LA LEGGENDA DEL PIAVE

LA LEGGENDA DEL PIAVE

Nel 1918 non c’era la radio, ma tutti in famiglia seguivano lo stesso lo svolgimento della guerra che si combatteva contro gli Imperi Centrali. Si piantavano le bandierine tricolori sulla carta geografica: Monte Nero, Carso, Isonzo… Le bandierine di carta avanzavano centimetro per centimetro sulla strada che portava a Trento e Trieste.

Poi una sera il nonno rincasò accigliato, tolse quattro bandierine tricolori dalla cartina e le attestò sul Piave: una tenue linea azzurra, simile ad una vena sullo sfondo rosa del Cadore. Furono giorni terribili, mesi di ansia e di paura. La disfatta pareva inevitabile, ma un giorno si sentì nell’aria una canzone e la paura passò:

Il Piave mormorava

calmo e placido, al passaggio

dei primi fanti, il ventiquattro

maggio….

Chi aveva scritto questi versi e ne aveva composto la musica era un impiegato alla Poste e Telegrafi di Napoli, di nome Giovanni Ermete Gaeta; ma in arte, giacché si dilettava di musica e versi di canzonette, aveva assunto lo pseudonimo di E. A. Mario. Scoppiata la guerra, egli si munì di un bracciale azzurro (che distingueva gli impiegati postali viaggianti) e saltò su una tradotta che lo avrebbe condotto fino alle tormentate province del Veneto.

Vide lo scenario dei monti brulli, severi, nel silenzio rotto dai lampi e dai boati degli obici, passò tra file di elmetti e di grigioverde, di profughi e autoambulanze. Finchè giunsero le tragiche giornate di Caporetto.

L’attacco era stato sferrato tremendo, Terribile il bombardamento dei cannoni d’ogni calibro, le linee avanzate dell’esercito italiano furono completamente distrutte. Tutto pareva perduto: imbaldanzito dal trionfo il nemico avanzava con furibonda vertigine. I fanti che si erano coperti di gloria, che da San Martino a Doberdò avevano espugnato tutti i baluardi tenuti dal nemico lasciandovi innumerevoli segni della lotta, arretravano ora stupiti., folli di dolore.

Il cuore del povero impiegato postale ne raccoglieva l’ira e lo sgomento. Quand’ecco il Piave in piena : a Zenson, a Fossalta, fino alle paludi del Sile è in piena logistica:

… si vide il Piave

rigonfiar le sponde,

e come i fanti combattevan l’onde!

I versi de “La leggenda del Piave”, composti di getto nella notte del 23 giugno 1918, furono annotati su un modulo telegrafico, e questo cimelio figura oggi nel Museo delle Poste e Telegrafi di Napoli. E così, questa canzone dilagò in un baleno su tutto il fronte: i soldati si scambiavano le copie manoscritte, le leggevano a lume di candela, le facevano circolare in trincea, molto tempo prima che uscisse l’edizione stampata. Sicché, quando il 20 agosto 1918 Gina de Chamey cantò l’inno in pubblico sul palcoscenico del teatro Rossini di Napoli, quella non poté dirsi la prima esecuzione. La voce dell’artista trovò un’immediata risonanza nella platea chiazzata di grigioverde:  alcuni fanti che erano venuti in licenza dal fronte,  sin dalla prima strofa unirono il coro delle loro voci a quella della cantante.

Nell’estate del 1918 le speranze degli italiani sembravano prossime a tradursi in realtà. “La leggenda del Piave” accompagnava le truppe verso la vittoria e la liberazione di Trento e Trieste.

Di questo sentimento popolare si fecero interpreti due torinesi: il maestro Colombino Arona ed il poeta Giovanni Drovetti che composero una musica semplice e toccante e dei versi scritti di getto che parlavano di Trieste con tanto amore.

Nell’estate del 1918 le speranze degli italiani sembravano prossime a tradursi in realtà. “La leggenda del Piave” accompagnava le truppe verso la vittoria e la liberazione di Trento e Trieste.

Di questo sentimento popolare si fecero interpreti due torinesi: il maestro Colombino Arona ed il poeta Giovanni Drovetti che composero una musica semplice e toccante e dei versi scritti di getto che parlavano di Trieste con tanto amore.

“La campana di San Giusto”  fu interpretata la prima volta da Giorgina Goletti al teatro Michelotti di Torino e il successo fu travolgente. Ben presto la canzone, subito pubblicata dall’editore Gori, si diffuse in tutte le città d’Italia meno che a Trieste, ancora dominata dall’esercito austro-ungarico.

Ma a questo punto, un ufficiale italiano, prigioniero a Gorizia, rilasciato dal carcere pochi giorni dopo, una volta giunto a Trieste diffuse la canzone in gran segreto. Non passarono due giorni che già tutti i triestini l’avevano imparata a memoria.

E fu così che la mattina del 3 novembre 1918 la popolazione di Trieste, che già aveva cacciato lo straniero dalla città, andò incontro ai bersaglieri che sbarcavano dal cacciatorpediniere AUDACE intonando la canzone “La campana di San Giusto”. La canzone di una guerra, di una generazione, di una vittoria.

LA LOTTA DELLE DONNE SALENTINE PER IL PANE E CONTRO LA GUERRA DEL 1915 – 1918 NELL’ULTIMO LIBRO DI SALVATORE COPPOLA

LA LOTTA DELLE DONNE SALENTINE PER IL PANE E CONTRO LA GUERRA DEL 1915 – 1918 NELL’ULTIMO LIBRO DI SALVATORE COPPOLA

Nel convegno del 21 febbraio 2017, organizzato dal Rotary Club nella Sala del Grande Albergo Internazionale di Brindisi, con la partecipazione della Società di Storia Patria Per la Puglia, di Assoanna Brindisi e della Società Storica di Terra d’Otranto, in prosecuzione degli incontri tenuti per il centenario della Grande Guerra, venne affrontato un tema molto importante sulla ridefinizione della donna in occasione della 1^ Guerra Mondiale. Nella discussione intervennero Giovanna Bino dell’Archivio di Stato di Lecce, Salvatore Coppola e Antonio Caputo della Società di Storia Patria per la Puglia ed altri studiosi. Il prof. Coppola, per l’occasione, rivolse la sua attenzione al mondo delle campagne di Terra d’Otranto durante la prima guerra mondiale e ai movimenti di lotta delle donne per il pane e contro la guerra.

Il prof. Coppola ritornò sull’argomento la sera del 27 novembre 2017, all’Assemblea dei Soci della Storia Patria per la Puglia tenuta nella Sala del Museo di Maglie, per sollecitare gli studiosi a soffermarsi e contribuire, con propri studi e contributi storici, sulle cause oggettive delle manifestazioni di protesta delle donne nelle strade e piazze delle città e dei paesi salentini al grido di pane e pace. Cause oggettive che, secondo il Coppola, portarono a una progressiva maturazione della coscienza femminile di classe, contro tutti coloro che erano ritenuti responsabili di affamare il popolo. E poi si aggiunsero le cause soggettive di quelle manifestazioni dovute alla lontananza dei loro uomini che combattevano e morivano nelle trincee al fronte. La sezione di Storia Patria di Lecce, come fa con le grandi ricorrenze storiche, fu pronta a promuovere un seminario sulla Donna salentina nella Grande Guerra.

Il nuovo libro del prof. Salvatore Coppola, membro della Società di Storia Patria, autore per tanti anni di ricerche sulla storia del movimento sindacale e politico del Salento, ha risposto a quell’appello sulla mobilitazione delle donne nel primo conflitto mondiale. Il libro “Pane!… Pace! – Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della Grande Guerra” – Giorgiani Editore – dicembre 2017, di recente presentato con successo al Comune di Poggiardo, sarà presentato il 27 febbraio p.v. alla Biblioteca Comunale di Tuglie con la presenza del sindaco Massimo Stamerra, Silvia Romano, Assessore alla Cultura, Antonio Rima, Direttore della Biblioteca, Eugenio Rizzo, Presidente del Collegio dei Geometri di Lecce, dott. Antonio Gabellone, Presidente della Provincia di Lecce, prof. Giuliana Iurlaro, docente dell’Università di Lecce, Prof. Salvatore Coppola, autore.

L’esito della ricerca del prof. Coppola presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, gli Archivi dello Stato di Lecce e Taranto, Archivi giudiziari dei Tribunali Militari, Biblioteche, ecc. è stata ampia, dettagliata e precisa. Negli anni dal 1916 al 1918 in Italia, mentre si svolgeva una guerra terribile e sanguinosa ai confini della Patria, si diffuse una guerra nella guerra da parte delle donne contro le autorità dello Stato per la mancanza del pane e per il ritorno dei mariti a casa perché non ce la facevano più a tirare avanti con i figli, la famiglia e il lavoro. Nelle campagne del Salento si svilupparono numerosissimi movimenti di lotta delle donne che scendevano in piazza non soltanto per reclamare il pane quando mancava e per una migliore qualità del pane quando era di cattiva qualità, ma anche contro gli speculatori e accaparratori del mercato nero. In molti paesi le donne urlavano contro la guerra e volevano subito la pace per ottenere il ritorno dei mariti a casa. Il prof. Coppola si è anche soffermato sulle proteste delle donne, dei bambini e degli anziani, per la riduzione delle razioni di pane, che non erano sufficienti a sfamare le famiglie; per la riduzione di altri generi di prima necessità; per l’aumento dei prezzi; il ritardato pagamento dei sussidi alle mogli dei richiamati; gli abusi nell’assegnazione delle tessere annonarie; la propaganda a favore del prestito nazionale; la mancata concessione delle licenze agricole.

Le donne protestavano per le sofferenze patite a causa dell’allontanamento dei mariti, figli e fratelli che erano al fronte a combattere e morire; per la mancanza di notizie sulla sorte dei propri cari; la presa di coscienza che la guerra sarebbe durata a lungo; la percezione di subire un’ingiustizia nel constatare che mentre tutti i figli delle classi povere erano al fronte, molti figli delle classi ricche riuscivano a rimanere a casa o imboscarsi negli uffici; nel constatare che il pane di peggiore qualità era destinato alle classi povere. Le donne rimaste a casa per sostituire gli uomini assenti per combattere nelle trincee, alla fine di tanti sacrifici e sofferenze fecero esplodere la loro rabbia per provocare l’abbattimento delle barriere domestiche in cui erano rimaste confinate. Il prof. Coppola a questo punto parla di manifestazioni di massa, con centinaia o migliaia di donne salentine, che nacquero spontaneamente, e si scagliarono con le pietre contro i vertici politici e militari.

Massicce manifestazioni di protesta interessarono nel 1917 i Comuni di Lecce, Gallipoli, Galatone, Nardò, dove le donne si rivoltarono contro i funzionari governativi che promuovevano la raccolta di fondi per il prestito nazionale. Ma si svolsero proteste anche in Comuni minori come Alezio, Aradeo, Arnesano, Carmiano, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Felline, Maglie, Martano, Melissano, Muro Leccese, Neviano, Poggiardo, Presicce, Racale, Scorrano, Sogliano, Taviano, Tricase. Le donne nelle contestazioni gridavano: “Vogliamo pane, siamo a digiuno noi e i nostri figli”. Altre gridavano: “Abbasso la guerra. Vogliamo i nostri mariti a casa e non il denaro”. Altre ancora gridavano: “Vogliamo la pace, non vogliamo la guerra”. Le manifestazioni prettamente femminili provocarono prima sorpresa nelle classi dirigenti, e poi un forte senso di fastidio perché le donne non dovevano protestare ma restare a casa, produrre e pensare ai figli.

Di questo grande movimento delle donne che interessò le tre province di Lecce, Brindisi e Taranto, il prof. Coppola, ha studiato le carte, le cause, le sentenze conseguenti agli arresti, ai fermi in carcere, ai processi e ai giudizi nei Tribunali Militari. Ha studiato le reazioni delle classi dirigenti e dell’apparato statale con misure sempre più repressive, specialmente dopo la disfatta di Caporetto. Di ogni manifestazione Salvatore Coppola descrive i fatti, cita i nomi delle donne e degli altri denunciati perché implicati nelle manifestazioni di protesta, degli avvocati penalisti e difensori, dei politici, amministratori e forze dell’ordine.

Le prime proteste più corpose si ebbero a marzo del 1917 nei centri di San Donato, Ceglie, Grottaglie e Ostuni. L’ultima protesta ebbe luogo il 9 luglio 1918 a Sogliano Cavour. Le fonti citate sono quelle dell’Archivio Centrale dello Stato e degli Archivi di Stato di Lecce e di Taranto, le carte dei Tribunali militari, oltre agli organi di stampa provinciali.

La monografia di Salvatore Coppola, sostenuta dal Presidente Eugenio Rizzo del Collegio dei Geometri di Lecce, fa parte della collana “Cultura e Storia” della Società di Storia Patria per la Puglia di Lecce diretta da Mario Spedicato; è stata pubblicata da Giorgiani Editore, con i patrocini della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione di Maglie, Fondazione “Capece” di Maglie, Società Storica di Terra d’Otranto e Sindacato Pensionati Cgil – Spi di Lecce.

13 DICEMBRE: SANTA LUCIA PROTETTRICE DELLA VISTA

13 DICEMBRE: SANTA LUCIA PROTETTRICE DELLA VISTA

Santa Lucia fu martirizzata a Siracusa in Sicilia, durante la persecuzione di Diocleziano. La sua memoria fu venerata sin dai tempi antichi ed ella è nominata nel canone della messa romana. Secondo la storia Lucia fu denunciata come cristiana dal suo corteggiatore respinto e salvata miracolosamente dall’esposizione in un bordello e dalla morte nel fuoco. Invece sembra vero che alla fine sia stata uccisa con un colpo di spada alla gola. Il nome di santa Lucia, che fa pensare alla luce, fu forse il motivo per cui ella venne popolarmente invocata contro le malattie agli occhi. Nell’arte è spesso raffigurata mentre porta due occhi su un piatto.

Il 13 dicembre ricorre la festa della santa famosa per essere la protettrice della vista. Prima dell’introduzione del calendario gregoriano (1582), la festa si celebrava in prossimità del solstizio d’inverno (da cui deriva il detto popolare “Santa Lucia il giorno più corto che ci sia”). La tradizione vuole che per molti popoli del Nord Europa e in alcune province del Nord Italia, come Bergamo, Brescia e Verona, la santa sostituisce Babbo Natale dispensando doni ai bambini buoni, che in sua attesa preparano del cibo e delle carote sul davanzale da dare da mangiare sia alla santa che al suo asinello.

In Svezia e in Danimarca si usa che la mattina del 13 dicembre la figlia primogenita si vesta con una tunica bianca e una sciarpa rossa in vita e, con il capo coronato da un intreccio di rami verdi e sette candeline, porti caffè, latte e dolci ai famigliari ancora a letto, accompagnata dalle sorelle minori vestite con tunica e cintura bianche.

Santa Lucia, nata nel 283 d.C., morì il 13 dicembre 304 martire, durante le persecuzioni indette dall’imperatore Diocleziano contro i cristiani. Era figlia di un nobile siracusano. Sin da bambina dimostrò di essere cristiana, manifestando l’intenzione di dedicare la vita a Cristo. La madre di Lucia, Eutichia, era malata di emorragie e per questo motivo le due donne si unirono a un pellegrinaggio di siracusani diretti al sepolcro di S. Agata, patrona della città. Lucia, mentre pregava si assopì, e la leggenda vuole che durante il sonno le apparisse la visione di S. Agata preannunciandole il martirio. La madre guarì e Lucia decise di consacrarsi a Cristo e di donare ai poveri tutti i suoi averi.

Il giovane pagano a cui Lucia era promessa sposa la denunciò come cristiana all’imperatore Diocleziano. Il processo che Lucia sostenne dinanzi all’arconte Pascasio attesta la fede ed anche la fierezza di questa giovane donna nel proclamarsi cristiana. Nonostante i supplizi subiti, non si piegò alle richieste dell’arconte, al punto che fu minacciata di essere esposta tra le prostitute del bordello. Poiché Lucia faceva resistenza, fu sottoposta al supplizio del fuoco, ma ne rimase totalmente illesa. Infine, piegate le ginocchia, fu decapitata, o secondo le fonti latine, le fu infisso un pugnale in gola (jugulatio). Morì solo dopo aver ricevuto la Comunione e profetizzato la caduta di Diocleziano e la fine delle persecuzioni.  Nelle molteplici narrazioni e tradizioni del secolo XV si racconta che le vennero strappati gli occhi. Per questo martirio la devozione popolare l’ha sempre reputata protettrice della vista, a motivo anche del suo nome Lucia (da lux, luce).

La leggenda narra che la giovane Lucia fece innamorare di sé un ragazzo che, abbagliato dalla bellezza dei suoi occhi, glieli chiese in regalo. Lucia acconsentì al regalo, ma gli occhi miracolosamente apparvero ancora più belli. Il ragazzo chiese in regalo anche questi occhi, ma la giovane rifiutò, così venne da lui uccisa con un colpo di coltello al cuore.

Santa Lucia è anche la patrona dei ciechi, degli oculisti, degli elettricisti e degli scalpellini, oltre ad essere invocata nelle malattie degli occhi. Il suo culto si diffuse rapidamente come mostra una epigrafe marmorea del IV secolo custodita nelle catacombe di Siracusa.

Il digiuno per Santa Lucia al giorno d’oggi si è trasformato in tutt’altro. Il 13 dicembre, giorno del martirio della santa, a Siracusa e Palermo si ricordano le carestie che colpirono Palermo nel 1646 e Siracusa nel 1763. Secondo la tradizione, la santa, implorata e pregata dai palermitani, salvò la popolazione dalla fame facendo arrivare nel porto un bastimento carico di grano. A dare l’annuncio dell’arrivo del prezioso carico fu una colomba che si posò sul soglio episcopale. I palermitani, ridotti alla fame da diversi mesi, non lavorarono il grano per farne farina, ma lo bollirono, per sfamarsi più in fretta, aggiungendogli soltanto dell’olio. Crearono così la “cuccia” che diventò una golosa pietanza per il giorno di Santa Lucia. Da questo episodio i cittadini di Palermo, hanno per secoli ricordato solennemente l’accaduto astenendosi per l’intera giornata dal consumare farinacei, soprattutto pane e pasta. In alternativa ricorrono al riso, ai legumi e alle verdure. Una storia simile, datata 1763, avvenne nel porto di Siracusa, ed anche questa città si attribuisce la paternità della ricetta della “cuccia”. In ogni caso, anche la Chiesa propone il digiuno e l’astensione, per questa giornata, dal consumo di pane e pasta. In alternativa, questo capoluogo siciliano, profuma di arancini di riso, panelle e cuccia.

4 DICEMBRE: SANTA BARBARA

4 DICEMBRE: SANTA BARBARA

PROTETTRICE DEI MINATORI, ARTIFICIERI, CANNONIERI

Barbara di Nicomedia, in Bitinia, era figlia di un ricco signore pagano di nome Dioscoro. Il padre, geloso della sua bellezza, la richiuse in una torre del castello per servire gli dei in attesa di un matrimonio conveniente. Dopo qualche tempo, Barbara rigettò il culto degli dei pagani e si convertì alla fede cristiana, battezzandosi nelle acque della propria piscina. Il padre perse la testa e pieno di rabbia trascinò la figlia davanti al giudice accusandola di fede cristiana ed assistendo alle torture che le furono praticate. Barbara venne condannata ad attraversare nuda il paese, ma per le sue preghiere, nel giorno designato, il cielo si annuvolò cupamente oscurando la sua immagine. 

   Il quattro di dicembre, regnante Massimiliano imperatore (288 d.C.), giorno del martirio di Barbara, il padre volle sostituirsi al boia per decapitare la figlia con la spada. Non appena la bionda testa cadde al suolo rosso di sangue, un tuono scosse il cielo e un fulmine colpì il disumano padre bruciandolo. Il corpo di Dioscoro rimase incenerito dal fulmine celeste, simbolo della morte immediata senza la possibilità di redenzione; quel fulmine costituì il centro attorno al quale si formò nei secoli la devozione per Santa Barbara.

   Ella fu prescelta perché rappresentava la serenità del sacrificio di fronte al pericolo senza possibilità di evitarlo, e venne eletta a patrona “di coloro che si trovano in pericolo di morte improvvisa”. Infatti, la martire, nell’imminenza del supremo sacrificio, pregò Gesù: “ tu che stendesti i cieli e fondasti la terra e rinchiudesti gli abissi, tu che comandasti ai nuvoli che piovesse sovra i buoni e sovra i rei, andasti sopra il mare e riprendesti il tempestoso vento, al quale tutte le cose obbediscono, esaudisci per la tua misericordia infinita l’orazione della tua ancilla… Pregoti Signore mio Gesù, se alcuna persona a tua laude farà memoria di me e del mio martirio… mandali grazia per tua misericordia”.

   La compenetrazione della leggenda con momenti di vita mistica, spiega le ragioni per cui, dopo l’invenzione della polvere da sparo, ciascun magazzino di munizioni, in particolare sulle navi da guerra, per devozione alla vergine di Nicomedia, da sempre tiene attaccato sulle pareti una immagine della Santa “perché siano preservati dal fuoco e dai fulmini celesti i depositi delle polveri, che si chiamano appunto Santebarbare”… (Padre Alberto Guglielmotti).

   Dopo qualche secolo sembrò che anche dalle mani dell’uomo fosse scaturita la folgore con l’invenzione della polvere da sparo e delle armi da fuoco. La devozione di Santa Barbara ebbe così nuova diffusione tra tutti coloro che maneggiavano pericolosamente la polvere da sparo come gli artificieri, i cannonieri, i pirotecnici, i minatori, ecc.

   I minatori festeggiavano la loro protettrice Santa Barbara il 4 dicembre. Quel giorno non si recavano al lavoro se la società proprietaria della miniera professava la religione cattolica. I minatori si riunivano insieme alle loro famiglie attorno a grandi tavolate per festeggiare la Santa.

   In Belgio si celebrava la messa in fondo alla miniera, dove veniva consentito anche alle donne di scendere e assistere alla messa con i loro congiunti. Oggi gli ex minatori, anche se in pensione, si scambiano auguri e piccoli doni, conservando ancora una grande gratitudine per la Santa, che li ha protetti nel corso del lavoro.

   A Tuglie fino a pochi anni fa, gli ex minatori, per il 4 dicembre raccoglievano le offerte per festeggiare Santa Barbara con fuochi d’artificio e con la celebrazione della messa. Oltre agli auguri si scambiavano piccoli doni.

   Nel breve pontificato di Pio XII, il 4 dicembre 1951, Santa Barbara venne proclamata a Celeste Patrona, per cui ogni 4 dicembre gli uomini della Marina Militare e quanti operano per essa, nel ritrovarsi con le comuni origini e valori, festeggiano solennemente e degnamente Santa Barbara, loro protettrice.

LA FESTA DEL GIOVEDI’ SANTO

LA FESTA DEL GIOVEDI’ SANTO

Fede e tradizione nel passato

 

   Ricordo che da piccolo, ogni anno, la primavera faceva rivivere nel giorno del Giovedì Santo, tra le bianche case del mio paese, una straordinaria festa che risaliva alle antiche tradizioni del 1600. 

   In quel giorno, nella Chiesa Matrice e nelle chiese dei rioni, era un continuo omaggio che i fedeli rendevano al Santissimo Sacramento esposto per ottenere la Grazia di Dio.

   Secondo un’antica cronaca quel prezioso simulacro aveva tenuto lontano l’eresia e la cattiva sorte nelle terre della Diocesi.

   Nella parrocchia seicentesca che si ergeva in piazza, di fronte al palazzo baronale, alle prime ore del mattino veniva esposto il Santissimo Sacramento sull’apposito trono, tra preziosi arredi sacri, in una vera serra di magnifici fiori profumati.

   Alle nove gli abitanti del paese, suddivisi secondo i tradizionali rioni, davano inizio alla sfilata dei cortei che si recavano in chiesa per rendere l’omaggio secondo la tradizione.

   A capo d’ogni rione vi erano gli eletti, che prendevano il nome di Priori, scelti ogni anno tra i signori più in vista della contrada. Seguivano le antiche Confraternite e Corporazioni religiose con tutto il loro sfarzo di divise e insegne.

  Ogni corteo, appena avvistato dal campanile, era accolto dal suono festoso delle campane della chiesa parrocchiale. Al portale si facevano avanti i sacerdoti in cappa che davano il benvenuto.

   I Priori, seguiti dai paggetti in costume tradizionale, sostavano al banco dell’antica Compagnia del Sacramento ove deponevano le offerte in cera e denaro precedentemente raccolte tra gli abitanti del proprio rione. Quindi avanzavano nella chiesa sino al luogo loro assegnato per l’adorazione. Il coro della cappella eseguiva a gran voce canti mistici, mentre tutti i fedeli del rione si prostravano in segno di devozione e presentavano i loro doni. 

   Quattro erano a quel tempo i rioni del paese e quindi quattro le processioni che si susseguivano durante la giornata per raggiungere la parrocchia.

   Il corteo del rione della piazza era il più fastoso ed il più numeroso. Dinanzi a tutti procedevano i valletti nello splendido costume rionale col gonfalone del Comune in testa. Seguivano poi le autorità civili e militari.

   A sera, tutti i Priori, insieme con la rappresentanza del Comune e col Parroco, ricevevano il Vescovo e poi in corteo si dirigevano alla Chiesa Madre, preceduti dalla croce della più antica Confraternita del paese ed accompagnati dalle Congregazioni coi loro vessilli. Chiudeva il corteo il Vescovo circondato dal clero in cappa. L’imponente processione entrava nella chiesa mentre il coro eseguiva il tradizionale inno in lode del Santissimo Sacramento. Un anziano predicatore saliva al pulpito e teneva il discorso celebrativo. A questo punto il magnifico altare barocco s’accendeva di luci vivissime. Tra la folla, nella vasta navata centrale, s’apriva la processione per percorrere le strade del paese. Il Vescovo, indossati i paramenti sacri, preceduto dal suo clero, portava attraverso la navata il Santissimo Sacramento sotto un ricco baldacchino sorretto dai membri della Sacra Compagnia, appartenenti alle più antiche e nobili famiglie del luogo. Facevano ala i paggetti dei rioni nel loro grazioso costume e tenevano in mano i ceri colorati a torciglione. Ultimi venivano i Priori coi ceri accesi, seguiti dai fedeli dei rispettivi rioni.

   La festa del Giovedì Santo, istituita intorno al 1600 dal Vescovo dell’epoca, era gloria e vanto del piccolo paese ricco di antiche tradizioni. Questa festa nacque, grazie al buon cuore dell’alto Prelato, in un periodo di particolare oscurantismo sociale e religioso. A dimostrazione della sua paterna bontà, il predicatore, fra l’altro, leggeva in chiesa il seguente brano della lettera pastorale diffusa dal Vescovo in tutta la Diocesi per consacrare la festività:

   “I Signori Priori useranno ogni diligenza per sapere, dopo invocato il Divino Aiuto, quali del popolo sieno in discordia o in altri peccati pubblici e procureranno con ogni forza di farli rappacificare ed emendare, acciò conforme al Santo Evangelio si guadagnino al Signore; e poi Confessati e Comunicati gli condurranno cogli altri in processione alla Chiesa per essere pronti a sentire e far l’orazione per conseguire l’Indulgenza”.

   Una festa, tanto attesa e sentita dagli abitanti del paese, che doveva tramandarsi nelle generazioni a venire attraverso i secoli.

   Malgrado le molte e ripetute traversie, clero e popolo ogni anno celebravano il Giovedì Santo con quella solennità voluta dal Vescovo sin dai primi anni de1’600.

   Due volte la festa corse il pericolo d’essere abolita, e fu al tempo della rivoluzione napoletana del 1799 e negli anni torbidi dei moti del 1821. Però, grazie alla fermezza dei nobili rettori della Compagnia del Sacramento e del popolo tutto, si riuscì a sventare ogni diffidenza.

   Alla gente, in questo giorno solenne, piaceva passare in processione col Santissimo Sacramento per le antiche strade del paese, addobbate per l’occasione con vasi di fiori, lenzuola e coperte ricamate che pendevano dalle finestre e dai balconi e con artistici altarini, eretti dai devoti nella piazzetta del rione. Al passaggio del Santissimo dalle terrazze e dai balconi piovevano petali di fiori di tutti i tipi e colori.  Il popolo cantava festoso e si entusiasmava di fronte a tanta partecipazione e devozione. Le campane delle chiese suonavano in coro per annunciare lo straordinario evento ed intanto si preparava lo sparo dei fuochi d’artificio a conclusione dei festeggiamenti.

   Dopo aver fatto il giro della piazza principale per riportare il Santissimo Sacramento in chiesa, le autorità, i fedeli, le Confraternite ed il clero si disponevano ordinatamente nei settori loro assegnati per assistere al solenne rito della benedizione impartita dal Vescovo.

   A quel punto il cielo, ormai buio, s’illuminava di mille stelle colorate fra lo scoppio fragoroso dei mortaretti e delle carcasse.

   Grandi e piccini, con lo sguardo rivolto al cielo, battevano le mani e ringraziavano il Signore per la bella giornata trascorsa in pace e serenità con tutti.

   Dopo la festa, le case le strade e le piazze del piccolo paese sperduto nella Murgia Salentina, restavano, per un altro anno, santificate e vivificate da un’antica tradizione e da una grande fede nella Grazia di Dio.